m.Belpoliti, Mettiamoci una toppa

DA la stampa 20 aprile 2009m.belpoliti.jpg

Giovanna ha rammendato le calze bucate del marito, di solito le gettava via. Francesca ha invece messo una toppa al lenzuolo di cotone che si era strappato, anche se subito aveva pensato di farlo a pezzi per ottenere stracci da casa. Anna ha ricucito il gomito liso del maglione di Federico e ci ha applicato un ritaglio di cuoio; in precedenza lo metteva tra le cose dismesse. Il rattoppo è tornato di moda. Ci sono negozi che si offrono, non solo per fare l’orlo a gonne e pantaloni, ma per recuperare abiti ancora in buono stato che presentano rotture, strappi o parti consunte. L’arte del rattoppo è un’antica pratica contadina, sicuramente femminile, uno di quei lavori fondamentali attraverso cui si riutilizzavano abiti, calzature, vestiti, ma anche oggetti casalinghi come tazze, piatti, taglieri, recipienti, cucchiai di legno e altro ancora. Per questo non era praticata solo dalle donne, ma anche dagli uomini, che vi ricorrevano per non disperdere lo scarso corredo delle case e degli strumenti di lavoro; persino per realizzare giocattoli per i bambini, recuperando materiali di scarto. Il mondo di ieri viveva di rattoppi, rammenti, rabberciava, riparava e riusava. Era dedito alla parsimonia là dove invece la nostra civiltà industriale, e poi postindustriale, pratica la consuetudine dell’«usa e getta». Ora sembra invertirsi una decennale abitudine al consumo allargato e dispersivo, alla dissipazione. La festa è finita? Forse sì.

Curiosa l’origine della parola «toppa», di cui si dice venga da topp, scuro. In realtà, come spiega il linguista Ottavio Lurati nel catalogo di una mostra (Il rattoppo, a cura di Fabrizio Merisi, Edizioni Museo del lino), c’è anche il dialettale «stoppa», cascame di lino o canapa usato per colmare fori e falle. «Toppare un buco» è connesso invece con la toppa della chiave: il buco attraverso cui si infila la chiave per far scattare il meccanismo della serratura. La toppa è propriamente il pezzo di metallo: la piastra rettangolare che si metteva intorno al foro della chiave al fine di non rovinare il legno della porta. Per contiguità il termine è passato dall’una all’altra; nel ‘300 il meccanismo della serratura era esterno e l’intero congegno era inserito dentro una piastra di metallo. Da qui toppa come «rappezzo», ma anche ritaglio, pezzo di panno, drappo o scampolo. «Mettere una toppa» è dunque passato dal mondo delle porte e dei metalli a quello dei vestiti e delle fibre vegetali.

Con le toppe e i rammendi torna di moda il bricolage, non solo come uso del tempo libero a fini utili, e insieme come svago, ma come sistema della vita quotidiana. È l’uomo-bricoleur di cui parla Lévi-Strauss. Il bricoleur, poi, non è solo colui o colei che, rispetto all’uomo di mestiere, lavora con le proprie mani, utilizzando mezzi di fortuna e cose trovate, ma indica, secondo i dizionari, anche un movimento accidentale: una palla che rimbalza, un cane che devia, un cavallo che scarta per evitare l’ostacolo. L’etimo della parola ci suggerisce come i rattoppi utilizzati nel passato – e ora anche nel presente – costituiscono un modo per aggirare le rigidità del sistema-vita, tecniche inventate con molto acume e tanta perizia dalle nostre bisnonne e dai nostri nonni, e tramandate per ogni evenienza. 

m.Belpoliti, Mettiamoci una toppaultima modifica: 2009-04-20T19:47:00+02:00da mangano1
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