augusto Vegezzi, Nell’abisso della guerra

PER IL 25 APRILE

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Nell’abisso della guerra
 
Quel giorno René si recò in città per le lezioni settimanali al Liceo. L’alba era stupenda. Nel cielo di cristallo il sole una palla rossa di fuoco sfolgorante attraverso lunghe bave di nuvole rosa. Che gioia pedalare veloci nell’aria frizzante, pregustando l’incontro con compagni e compagne. Il cielo vibrante gli sembrava come un infinito bacio: sublime. Arrivò prestissimo, un po’ dopo le sette: la scuola era ancora chiusa. Gettò nel mucchio accanto all’ingresso il suo socco, il ceppo  da ardere che ogni studente portava come contributo per riscaldare la classe. Decise di fare un giro nel centro. Giunto davanti allo splendido duomo romanico la straziante lagna della sirena suonò a lungo. Allarme. Aerei come avvoltoi in avvicinamento. Capitava spesso che arrivassero e proseguissero… Il crepitio delle antiaeree lacerò il silenzio… La gente  usciva dalle case per precipitarsi verso i rifugi. Dalla chiesa uscì di corsa un prete grasso, quasi rotolò lungo le scale e scomparve nel vicino androne del vescovado. René notò che la porta della chiesa era rimasta aperta. Incatenò la bici a un palo e s’inoltrò nelle tenebre del tempio. Buio, un antro immenso, qualche lume baluginante. Un brivido gli corse lungo la schiena e si girò per uscire. Poi decise di salire sul campanile, altissimo, una postazione eccezionale per osservare i tetti della città, la pianura fino alle Alpi e agli Appennini, il cielo… e gli aerei. Trovò la porta di accesso alle scale chiusa solo con un catenaccio e cominciò a inerpicarsi. Oltre trecento scalini, dicevano. Nel buio pesto, il cigolio delle rampe di legno e i gelidi spifferi gli comunicarono una paura che lo afferrò alla gola, come un crampo doloroso. Il respiro rotto, le gambe pesanti, brividi serpeggianti nel corpo, resistette all’impulso di fuggire e, alla fine, poté affacciarsi a una delle grandi quadrifore al culmine del campanile, nel trionfo del cielo azzurro e del sole abbagliante. Fu preso da un entusiasmo febbrile. Nessun aeroplano in vista; augusto.jpganche l’antiaerea ora taceva. Silenzio nel cielo, silenzio nella città rintanatasi nei rifugi. Rari, regali uccelli si libravano sicuri, si inseguivano, planavano verso obiettivi ignoti. Forse poiane? Nelle strade vuote nessuno, silenzio, gelo. La città, si disse, grazie alla guerra, sembra un’assiderata geometria, l’idea platonica di città, uno dei tanti De Chirico. La paura si era dissolta. Pace. Ebbrezza. Gioia. Euforia. Di nuovo il senso di un infinito bacio nel cielo.
Sentì dei passi: qualcuno arrancava sulle ultime rampe. Si acquattò dietro a una campana. Il panico gli strinse la gola: lo avevano visto e venivano a prenderlo. Improvvisamente una figura si stagliò contro l’azzurro del cielo. Il sole lo abbagliava, ma infine il ragazzo riconobbe la Somala, un profuga del perduto impero africano, bruna, alta, selvaggia, che frequentava la terza liceo.
La sua voce rauca, sarcastica squarciò il silenzio:
‘Eccolo qui, il pensatore bizzarro… René ti chiami, vero?’
‘Eccola qui, la famosa Somala, un genio matematico… e una indomita sperimentatrice…dicono.‘
‘Grazie. Evidentemente abbiamo le stesse inclinazioni scientifiche. Magnifico punto di osservazione… Magnifica occasione per esaminare un bombardamento. Vediamo se hai il fegato per non scappare ai primi boati…’
‘Grazie mille, ma so chi scapperà per prima…’
‘Beh… In Africa ho avuto tante esperienze di battaglie, bombardamenti,
aggressioni, prigionia… e peggio. Nemmeno ti immagini cosa deve affrontare una ragazza in guerra… Per poi trovare rifugio in questo culo del mondo, tra barbari che neanche i boscimani… Oh, che meraviglia… Da qui questa miserabile città sembra magnifica… E così la campagna… La pianura, una tavolozza di verdi e marroni, si estende fino alle candide  chiostre delle Alpi e degli Appennini… Fantastico… Dio, se esiste, se la gode contemplando questi splendidi paesaggi e certo evita di vedere i serpenti a sua immagine e somiglianza che strisciano a terra…’
‘Lucida, mordace e sarcastica. Capisco perché ti chiamano la Pantera di via Scalabrini… Ti voglio stupire. Sono perfettamente d’accordo con te, sia sul dio, che non esiste, sia sui serpenti, che purtroppo esistono.’
‘Lucido e cortese. Micro Fuerbach, sono fiera del mio nomme d’art, sì  
pantera, guadagnato per ben altro, che un giovincello come te nemmeno immagina. Ma stiamo a vedere cosa accade.’
Un lontano, fatale ronzio, insistente, raggelante, fatale preludio di nefaste catastrofi, interruppe i convenevoli non esattamente cordiali, e rapidamente divenne un sempre più cupo rombo, che riempì il cielo e dissolse ogni illusione. In pochi minuti le sagome argentee di decine e centinaia di aerei si profilarono in fitte formazioni, trascinandosi candide scie, che descrivevano nell’azzurro infinito larghissime curve   sfumantesi nel remoto orizzonte… Improvvisamente disordinate cortine  di fiocchi nero-biancastri macchiavano il cielo simultanee a cori diabolici di esplosioni: il fuoco di sbarramento della Flack… Uno spettacolo fantastico… e inutile. Indifferenti, intatti, implacabili, gli aerei, magnifici angeli della catastrofe, si avventarono sulla città a ondate.
René e la Somala, ora fianco a fianco, attoniti e incantati, videro le bombe cadere scintillanti in fitte sequenze… ed esplodere arando il centro con spietate valanghe di fuoco. Grappoli di lampi gialli, bianchi, violacei e rossastri si rincorrevano e si sovrapponevano in una fantasmagoria al di là di ogni immaginazione. In diversi punti della città le case esplodevano in sequenza, una dopo l’altra, disegnando delle scie di catastrofi. I tetti volavano verso l’alto, come fogli di carta, e si frantumavano in milioni di coriandoli variopinti. Le altane s’innalzavano e sparivano nel vuoto. Intere facciate venivano travolte nelle strade e  si sgretolavano già a mezza altezza. Nuvole bianche e nere e rossastre balzavano vorticose verso il cielo, si contrapponevano e mescolavano, rutilanti, illuminate dai violenti bagliori di nuove esplosioni. Ovunque cortine di fuoco e fiamme… ovunque nuvole di polvere e fumo. I due ragazzi prima vedevano le esplosioni e dopo alcuni  attimi venivano investiti insieme da folate violente e suoni, rombi, boati, tuoni, sgretolii, tonfi… Infine le esplosioni si diradarono e l’urlo agghiacciante dei motori si attenuò e si venne smorzando verso est e poi svanì a sud. Gli avvoltoi, sazi di distruzioni e massacri, tornavano ai loro covi.
Paralizzati dal panico, ma con lo spirito lucido e determinato a osservare e ascoltare, vedere e sentire, registrare, René e la Somala rimasero per tutto il tempo del bombardamento affacciati alle grandi quadrifore, come in trance, incuranti del pericolo. 
Eccola, la guerra. Queste catastrofi. Queste distruzioni. Questo putiferio di suoni rumori colori bagliori. Questo spettacolo fantastico degli aerei d’argento nel cielo azzurro tra gli spruzzi nero sfumanti della Flack, gli sciami di puntolini delle bombe in caduta, le serie agghiaccianti di esplosioni, le case che volavano in cielo sbriciolandosi e ricadevano ridotte a detriti, polvere, nulla.
Riprendendosi dal panico e dall’orrore, René e la Somala si resero conto che, inconsapevolmente, si erano stretti in un abbraccio, due osservatori scientifici, sì, ma infine due ragazzi soli e terrorizzati, affascinati e disperati. In quel teatro dell’orrore i due ragazzi erano e si sentivano assolutamente derelitti. In questo orizzonte di distruzione non c’era scampo. Nessuno senso. Nessuna logica. Solo violenza e orrore. Il cielo era vuoto… Il mondo era insensato, assurdo, dominio della morte: aerei, bombe, cannoni, mitragliere, odio e terrore contrapposti in due schieramenti, due tecnologie, due sistemi bellici scientifici in sfida mortale e insensata, l’uno intento a distruggere, l’altro a distruggere i distruttori… Stritolata in questa assurda morsa, la città aggredita, seviziata, martirizza, demolita… la città più che millenaria, la città amata- odiata, triste, uggiosa, mortificante eppure non priva di sfide, prove, opportunità… la città dal clima terribile, esagerata nel freddo come nel caldo, avvolta da nebbie fitte per mezzo anno, coperta da caliginosi cieli lattei per l’altra metà, con la sua gente chiusa, introversa, diffidente invidiosa… Barbara? No, cara Somala, selvatica. La città dal nome forse ironico, forse sarcastico, antifrastico: Piacenza, affinché la gente se la fa piacere.
René fissò la ragazza e scorse nel suo sguardo il terrore e una luce selvaggia. La ragazza lo attrasse a sé e lo baciò ferocemente, quasi mordendolo. Gli succhiò labbra, lingua, tutto, anche l’anima. Poi, come in un delirio, dionisiaca, prese a strappargli i vestiti, sempre baciandolo.
René fu stupito, sconvolto, e infine travolto. Anch’egli, sempre baciandola, le tolse convulsamente ogni indumento. Il sole era abbagliante, ma faceva ancora freddo.
Nudi e intirizziti, dimentichi di tutto, sulle pietre secolari, sotto le grande bifore dominate dal cupo angelo di bronzo, fecero l’amore, freneticamente, selvaggiamente, come due fiere, finché dimenticarono il dolore del mondo, finché persero ogni coscienza, ogni conoscenza, ogni razionalità, finché s’inabissarono nel fondo più fondo dell’umano, dove la voluttà travolge ogni barriera, tabù, idolo, dove palpita solo la più profonda natura, il flusso vitale, l’ebbrezza della vita. Poi giacquero nell’abbrivo dell’incanto che dissolve l’io, la realtà, il mondo. Per un tempo effimero la guerra, il bombardamento, la città furono cancellati.
La ragazza, infine, flemmatica e sarcastica, ruppe il silenzio:‘Bene, Feuerbach… Meriti questo nomme d’art. Torniamo alla banalità del male. Abbiamo osservato l’essenza della guerra, una distruzione esemplare ed emblematica. Scientificamente e tecnologicamente eseguita come da robot. In realtà da uomini senza coscienza, trasformati in robot.
Tutto disumano, assurdo, orrendo. Forse il risultato è sacrosanto, anche se non intenzionale. Questa inclemente città lo meritava: e muoia con tutti i suoi filistei.’
René fu turbato. La guardò e vide lacrime sulle sue gote. Ecco. Anche lei… amore e odio. L’africana, la forestiera, l’estranea condivideva i suoi stessi sentimenti di cittadino di nascita e apolide per scelta. Quando si parla di affinità elettive. Stranamente condividevano analoghi giudizi, identiche ambivalenze.  
‘Grazie, Fantastica Pantera, per il nome Torrente di fuoco. Ma dicesti micro. Capisco la tua ira funesta. E dovrei convenire. Ma io preferisco rimanere oggettivo, scientifico. E constato: la città muore con i suoi filistei. Forse questo lo meriterebbe in un mondo perfetto… e per ragioni vere, serie, giuste. Non in questo mondo abietto, in questa guerra mostruosa e in questo modo casuale. Non così, aggredita, sconvolta e polverizzata per logiche remote, su progetti indifferenti e insensibili e da tecnologie manovrate da potenze straniere in lotta mortale per loro interessi e ragioni e follie. Ecco cosa è la guerra: una sanguinaria partita giocata tra pochi che strumentalizzano interi popoli generando cataclismi, distruzioni, atrocità ai danni dell’intera umanità.
Abbiamo assistito a uno spettacolo fantastico, affascinante… e mostruoso. E il dio che ricordavi prima probabilmente si era distratto, o forse suicidato. Un’infamia efferata. Nessuno dovrebbe violentare e distruggere questa città. Nessuno… e nessuna città. Al limite, se lo decidessero liberamente, i suoi abitanti… Forse noi giovani lo faremo. Ci dovremo pensare noi a suo tempo a cambiare le cose e a trasformare lo spirito della città.’
La Somala lo guardò con un sorriso scettico e ironico, ma preferì non infierire, forse colpita dalla passione ideale del ragazzo.
Tra il turbinare di fiamme e polvere e fumo, benché la sirena del cessato allarme fosse restata muta, rombi di automezzi, pianti, lamenti e grida umane segnalavano la fine del bombardamento. René e la Somala scesero le scale di corsa e si trovarono in uno livido scenario di ruderi, roghi, fumo, polvere, puzza e uomini e donne urlanti, piangenti, che si trascinavano qua e là come impazziti. Uno scenario spettrale. Molte facciate non era volate in cielo, come avevano osservato dall’alto, ma si ergevano ancora, interamente svuotate dell’interno, quasi emblemi della tragedia. Altre case invece stavano ancora ritte, ma scortecciate della facciata, spalancando ad occhi estranei i segreti celati da sempre: pareti colorate, piastrellati di bagni e cucine, rampe di scale che iniziavano e si perdevano nel nulla, alcove segrete per chissà quali segreti amori o delitti, magazzini colmi di miserie nascoste, forse vergognose… Spettri tragici, in desabillé, arlecchineschi, osceni. Una farsa nella tragedia.
Schiere di fantasmi stralunati uscivano barcollando dai rifugi, tra gemiti, pianti, grida. Molti feriti e morti, maschi e femmine, bambini giacevano travolti dalle macerie. Gesticolanti come marionette o accasciati a terra, il viso schermato tra le mani tremanti. Molti tra i vivi camminavano ciondolando senza tregua, fuori di senno, gli occhi perduti nel vuoto. Un cataclisma. Un’ecatombe. Una strage. Il cielo, al di là delle cortine e delle colonne di fumo, rimaneva di un azzurro abbagliante, indifferente, inaccessibile.
Un brulicare di pompieri, ambulanze,  medici, crocerossine,  preti, becchini, autorità in un caos di ordini, contrordini, sfuriate, scontri verbali, impotenza, disperazione. Lentamente cominciarono a funzionare i soccorsi. Arrivarono altri cittadini, numerosi, disperati e solleciti, per aiutare e confortare i superstiti, ricuperare feriti o sepolti, fornire le prime cure.
I due ragazzi si unirono a un gruppo di pompieri, passarono tubi e scale, spostarono macerie, confortarono feriti, trasportarono morti. Nel fervore dei soccorsi non ebbero tempo di lasciarsi travolgere dalla compassione e dall’orrore. Bisognava fare, aiutare, lenire. Bisognava rimediare all’orrore delle distruzioni di persone e cose. La tragedia di ogni disperato, ogni ferito, ogni morto entrò nel loro animo inconsapevole, marchiandolo con lacerazioni profonde ed indelebili, un incancellabile memento, un imperituro incubo. Per chi suona la campana…  Nell’urgenza delle incombenze si persero di vista. A metà pomeriggio per pochi minuti si incontrarono, presso un grande secchio d’acqua, e bevvero dallo stesso mestolo. Stravolti, disfatti, i vestiti chiazzati di sudiciume, di sangue. Si abbracciarono.
René disse, quasi con rincrescimento: ‘E noi siamo ancora vivi…’
‘Già. Verrebbe voglia di non esserci più. Quanti feriti, quanti morti, quanti bambini.’
‘Quanto dolore. E tutto inutile’
‘Hai notato? Nessun neonato.’
‘Già. Forse un dio dei neonati esiste.’
‘Un dio selettivo e misantropo, suppongo.’
Nessuno dei due rise. Meglio non pensare. Meglio dimenticarsi, dimenticare. La frenesia dei soccorsi li risucchiò. Si erano incontrati e uniti nel pericolo, si persero nel caos. Tempi effimeri. Incontrarsi capirsi e perdersi.
Improvvisamente le bordate di sbarramento della Flack tambureggiarono scomposte mentre il crescente rombo di motori annunciava il ritorno dei predatori. Le inutili sirene dell’allarme rimasero mute. Fu un fuggi fuggi frenetico e disperato. Grappoli di boati non lontani annunciarono che il bombardamento era ripreso. Durò pochi minuti. Forse una squadriglia in ritardo, dispersa, pigra? Forse. Ma non mancò di infierire ancora sulla città già martirizzata. Dopo una decina di minuti, il pianto delle sirene annunciò la fine del bombardamento e ripresero febbrili i soccorsi.
René, a pezzi e sotto choc, quasi automaticamente prese la bicicletta e si avviò sulla strada di casa.
Mentre arrancava sulla lieve salita, si rese conto di quanto gli era capitato e di quanto era cambiato, in poco ore, quasi un triplo o quadruplo salto mortale durato anni luce. Letteralmente… quasi mortale. Dall’idillio dell’adolescenza, dall’isola felice in campagna, dove la guerra era qualcosa di lontano, notizie, dati, bandierine sulle carte geografiche, narrazioni e discorsi, René si rese conto che era piombato al centro del macello… del sacro macello… dell’inferno in terra.
Un’apocalisse tra Leviathan mostruosi si era dispiegata e rivelata con tutto il suo orrore sotto i suoi occhi. L’ingenuo liceale aveva subito una durissima prova del fuoco nell’animo e nel corpo. Forse era così, a sedici anni, che si diventa uomo? Era molto lucido, aveva visto, capito e vissuto tutto; ricordava tutto. Si sentiva a pezzi, ma fiero. Si sentiva uomo. In un mattino era successo di tutto. Cercò di ripercorrere i tanti momenti… L’orrore, l’incanto, la solidarietà… La guerra lo aveva investito, devastante. Egli aveva cercato di resisterle, di opporlesi, di ribellarsi…nell’impavida osservazione, nell’ebbrezza dell’amore e nella compassione dei soccorsi. In cuor suo la maledisse, e maledisse chi l’aveva proclamata, chi la faceva e chi la subiva senza ribellarsi. Tutti in qualche modo complici e corresponsabili e alla fine vittime.
Giunto alla villa, trovò i genitori in disperata attesa, che lo accolsero questa volta con infiniti abbracci e rallegramenti. Parlarono di miracolo perché lo temevano ferito, forse morto nel terribile bombardamento che avevano seguito da lontano e di cui erano giunte notizie raccapriccianti.
Egli raccontò che aveva trovato scampo in un rifugio e poi si era prodigato nei soccorsi; non nascose le distruzioni e le centinaia di morti e feriti.
La madre commentò: ‘Ma non è possibile. Centinaia di morti… Come soffro. Che angoscia. Poverino. Il mio René. Il mio bambino. Che angoscia.’
E il padre: ‘Tutti i palazzi di piazza duomo distrutti…E altri in altre strade. Ma è una catastrofe… La città devastata… Che disastro…’
René tenne per sé la sua avventura di osservatore scientifico sulla torre del duomo e il suo amore con la Somala. E tra sé non mancò di registrare l’aridità dei genitori, così insensibili di fronte alla tragedia umana, così rassegnati e muti nei confronti della guerra.
La mamma lo accompagnò a letto sussurrandogli dolcemente: ‘Il mio bambino… Il mio bambino…’ Avesse saputo quanto profondamente il suo bambino dalla mattina alla sera era diventato uomo e con quanta audacia aveva esplorato il mondo degli uomini lupi contro gli altri uomini e quanto profondamente si era inoltrato nel mistero della passione e del sesso…
Il bambino si chiese: ‘Ma loro hanno una vaga idea del mondo, della guerra, dei massacri… Loro hanno mai intuito quanto il senso della vita si lega strettamente al senso della morte?’
Il ragazzo sussurrò un verso di Shakespeare: At the end is despair.
E cercava di incoraggiarsi: ‘Sì, ma solo alla fine, solo alla fine.’ E si sentiva pieno di vita, di passione, di indignazione, di ribellione. Pieno di odio contro i nemici della vita. Deciso a rischiare, a combatterli. Ma assalito da dubbi, angosce, disperazioni. In bilico su un filo di rasoio..
La notte trascorse tra incubi e vani tentativi di cogliere un senso in tutto quello che era capitato.  
  
 
 

augusto Vegezzi, Nell’abisso della guerraultima modifica: 2009-04-22T18:48:00+02:00da mangano1
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