Marco Managò, Lettera a un adolescente

Lettera a un adolescente. Vittorino Andreoli
di Marco Managò – 15/05/2009

Fonte: Rinascita
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In forma epistolare (attraverso il volume edito da Biblioteca Universale Rizzoli), il noto psichiatra Vittorino Andreoli (foto) si rivolge al mondo degli adolescenti; un ambiente che conosce bene, in cui si pone con tutta l’umiltà possibile, senza pretesa di possedere verità incontrovertibili.
Il cervello, ricorda prontamente, ha una parte dedicata alla ragione che vincola le nostre azioni, ma in esso ha sede anche un settore che elabora il sentimento e da questo muove per influire, di molto, su ciò che sembra pienamente razionale.
Gli studi recenti sul cervello hanno dimostrato che non è soltanto una massa rigida, immutabile nella sua immensità e parallela fragilità, bensì vi è un settore “plastico”, duttile, frutto e causa delle esperienze quotidiane. Le relazioni umane sono strettamente connesse a tale settore, al punto di rinnovarne di continuo la stessa struttura cerebrale.
Sulla scorta di questo si pensi quanto possa essere fondamentale il rapporto tra le generazioni, tra genitori e figli. Un rapporto che eviti, rammenta fortunosamente Andreoli, ridicoli e sterili giovanilismi genitoriali nonché innaturali maturazioni ed emulazioni filiali.
Tale relazione deve vivere attraverso una collaborazione reciproca in cui il genitore impara a esser padre e colui che è generato dimostra d’esser figlio.
L’adolescenza reca con sé l’affascinante ma turbolento fenomeno della metamorfosi, sia fisica, in cui si fatica ad accettare qualsiasi sbavatura del proprio corpo, sia mentale, nella personalità e nei rapporti sociali.
Andreoli si concede anche dei consigli ai genitori, affinché non piombino nell’esasperazione della paura ed evitino di chiudere i figli in una botte di ferro fondata sul rifiuto netto e autoritario. Da tale contrapposizione si può generare vera dicotomia tra genitori paurosi della paura e figli incuranti del rischio, anzi attratti per ripicca. Più contrarietà adolescenziale genera maggiore controllo che, a sua volta, innesca altro antagonismo.
Fallace è anche la soluzione di alcuni genitori che valutano come piccoli eroi i propri pargoli, ritenendoli (o convincendosi di ritenerli) infallibili e quindi lasciati al proprio destino, in un sorta di abbandono mal celato.
L’autore distingue anche le tre forme di contrasto possibili: quella della trasgressione (di machiavellico utilizzo), in cui non ripone grande validità né a livello sociale né personale considerandola per quello che è, sottomissione. Ridicole, quindi, le gesta di alcuni adolescenti che si credono trasgressivi (con relative conseguenze) eppur funzionali al sistema che li ingabbia.
Altra dipendenza, seppur al contrario, è quella che si genera nella seconda ipotesi, quella dell’opposizione, del muoversi contro in modo acritico, acefalo.
Più nobile è l’atteggiamento di rivolta, di sana ribellione, di scelta e valutazione del proprio argine di manovra in relazione al presunto torto o rifiuto subito. Solo in tal caso si sprigiona la sana forza giovanile, motore della società statica e perfettibile.
Non si consideri rivolta quel misero tentativo di emulazione dei cosiddetti eroi sociali, spesso catapultati dai media, altri, invece, divenuti esempi per il loro coraggio sfrontato speso nel fiaccare il più debole.
Nel rischio rientra anche la casistica di quegli adolescenti che, superficiali e sprovveduti, giocano le loro carte in un occasionale rapporto d’amore che si conclude con una maternità. Il caso inglese, ricco di episodi del genere, frutto evidentemente di una cultura e di un processo educativo dal quale fuggire anziché emulare scioccamente, credo rappresenti l’apice di una superficialità e di un’indifferenza estranee all’autentica cultura italiana.
L’invito al dialogo tra generazioni è ricorrente nel volume, al fine di evitare incomprensioni, dolori, frustrazioni e pericolose depressioni. Aggiungo che tale relazionarsi debba avvenir preferibilmente tra le mura domestiche, a viso aperto e tra le parti coinvolte, anziché sfruttare (e farsi sfruttare da) insulse trasmissioni televisive, oppure ricorrere ad aride e impersonali comunicazioni telematiche.
Andreoli ricorda efficacemente: “Lo so che la principale causa di morte degli adolescenti è il suicidio e che molti degli incidenti stradali, che rappresentano la seconda causa, sono suicidi mascherati: come se si andasse incontro alla morte ridendo e cercando di apparire imbattibili o immortali”.
L’autore rivede anche ciò che per il credente è il fondamento della discesa del Cristo: il concetto del perdono, sempre. Andreoli esclude questa grazia perenne, “istituzionalizzata” e ritiene possibile il perdono solo nei casi legati all’amore, all’affetto, anche tra familiari; proprio in queste ultime circostanze sembra che la voglia di esagerare sia più forte, perché si avverte il diritto e la speranza dell’esser perdonati. Paradossalmente, nel far male a chi si vuol bene (quasi come crear danno a se stessi), si scopre ancor più il valore e la bellezza del perdono dentro l’amore e non occorre vergognarsi nel donarlo.
“Dentro l’amore abbiamo voluto rileggere il perdono che invece, al di fuori, diventa incomprensibile e ingiusto”. Scrive Andreoli.
Il testo scorre attraverso un richiamo, doveroso, alle degenerazioni psicologiche che la scoperta del proprio corpo può determinare tra le giovani generazioni, soprattutto per quanto riguarda la tanto vituperata sessualità.
Il contrasto con se stessi e con le parti che non si accettano è un tema paradossale ma ricorrente; anziché dissolverlo mostrandolo, si enfatizza reprimendolo.
Arduo per molti adolescenti accettarsi dinanzi alle misure e ai canoni che, aggiungo, i media colpevolmente innestano impietosamente. L’estetica esclusivamente corporea (e non quella legata ad altri elementi, educativi e di gestualità) elevata a idolatria, conduce a perigliosi travagli interiori, nonché emarginazioni sociali; in contesti, tra l’altro, che per l’omogeneizzazione imposta propongono individui (?) anonimi e identici nelle fogge che la moda pretende, pena l’esclusione sociale.
Nel testo è compreso anche il doveroso richiamo alla pericolosità della droga, considerata, per alcuni giovani, il fulcro di ogni azione e di ogni pensiero del quotidiano. In più, c’è la coraggiosa e chiara denuncia (dai media un po’ disconosciuta a spese sempre dei ragazzi drogati) contro quei maggiorenni che degli adolescenti, per mero guadagno, fanno scempio a suon di grammi di droga.
Un elemento davvero importante, sul quale si pone attenzione, è quello relativo alla mancanza del senso del futuro da parte dei giovani; occorre valutare, infatti, quanto essi, sradicati dal passato, nella convinzione di poter far a meno degli insegnamenti di ciò che è stato, vivano soltanto per il “qui” e l’ “adesso”.
“Una stessa frazione di tempo vissuta nella paura si allunga moltissimo, nella gioia si accorcia. La depressione dilata un attimo all’infinito. E in questa dimensione entrano anche la fretta, l’impazienza. Insomma, esiste un tempo dei sentimenti”, scrive Andreoli.
Proiettare tutto nel presente significa ricevere gran frustrazione in caso di insuccesso, senza valutare la possibilità del rimandare o posticipare; vige una dimensione del presente su cui si fonda l’intera esistenza. Uno sguardo che non sa andare oltre la visuale di una settimana o di un mese è frutto di un animo impoverito, al quale fa difetto anche un altro elemento fondamentale: il desiderio.
Tale desiderio deve esser frutto della fantasia, dell’immaginazione personale e occorre che sia rivolto al presente ma soprattutto al futuro, nonostante tutto l’imbrigliamento mediatico che ne stempera i confini.
Il desiderio, espropriato ai giovani e omologato nei caratteri della pubblicità, riveste un aspetto del tutto legato al presente e alla massa.
Scrive lo psichiatra: “Un’ingegneria dei bisogni, ideata e controllata dagli adulti, per cui un giovane deve desiderare quello che tutti desiderano e che i mercati hanno deciso di vendere”.
Altro particolare su cui riflettere è quello legato alla nuova tendenza di negare all’adolescente il concetto di morte, evitando di parlarne e mostrandone soltanto l’aspetto mediatico, spettacolare, eroico e transitorio. La stessa Chiesa, per Andreoli, ha ridotto quel ricorso ossessivo del passato legato al tema della morte, affiancandosi a quegli stolti educatori che predicano soltanto “gioia”.
Si sviluppa, così, un’anomala concezione della morte, spesso legata all’esigenza di trasgredire, di esserne il nuovo eroe, di padroneggiarla quando, invece, la realtà sconfessa pienamente tale misera aspirazione.
In tale situazione, ricordo, allignano (molti esempi, purtroppo, in questi mesi) in altri paesi, giovani che imbracciano un’arma, sparano sulla folla senza un motivo e si suicidano.
L’azione o, più precisamente l’inazione, tipica dell’attività di un gruppo, è alla base di molti dei comportamenti giovanili; tale aggregazione esclusivamente temporale, di appropriazione dello spazio e del tempo spesso senza finalità costruttive, omologa e spersonalizza, illude e vincola. Il contrasto precipita quando tale gruppo, vissuto come famiglia, sia antitetico ai principi del vero nucleo familiare.
Nella prima adolescenza l’omologazione del gruppo è notevolissima e in esso il giovane trova una nuova famiglia, di carattere sociale. Qualche anno dopo si torna a una dimensione più riservata, all’interno dello stesso gruppo, sorretta da un legame forte, di amicizia o di amore, in cui la propria unicità tende timidamente a riaffiorare.
Alcune volte, però, si finisce per essere schiavi di tali legami sino a non poterne fare a meno, sconfinando in atti estremi che, un po’ di senno in più e un po’ di empirismo in meno, eviterebbero di certo.
La scuola, che in questi casi dovrebbe essere il gruppo per eccellenza, finisce secondo l’autore, per essere soltanto una palestra dell’odio, dell’individualismo, della gara a eliminazione anziché un’orchestra guidata da tutti i suoi elementi al risultato finale collettivo. Un ambiente schiavo delle raccomandazioni e delle ingiustizie fondate su valutazioni puramente discrezionali.
Un’anticipazione, affermerei, di ciò che la vita propone nel successivo fronte lavorativo.
L’epistola di Andreoli è interessante e scava profondamente in un mondo dalle molteplici sfaccettature; una di queste, frutto della storia più contemporanea, è dimenticata dall’autore, ma credo meriti menzione e riguarda tutte le relazioni sociali che un cambiamento epocale, quello della massa di nuovi giovani nati in Italia da genitori extracomunitari, possa generare. Come si evolve e si sviluppa tale integrazione adolescenziale, quale beneficio potranno trarre le anime cosmopolite del mondo? Con la speranza che ciò non rappresenti un ulteriore motivo di contrasto e di insoddisfazione; privi ancora, come siamo, dei primi dati dell’accesso lavorativo di tale nuova generazione.

Marco Managò, Lettera a un adolescenteultima modifica: 2009-05-17T23:53:00+02:00da mangano1
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