Patrizia Gioia, L’estraneo e il familiare

l terremoto è la fine del nostro mondo.
Tutto ci è ora estraneo, anche l’altro, il soccorritore, è un intruso che non ci lascia in pace, che si accanisce sulle nostre rovine, nelle rovine dove vorremmo stare e starci da soli e rovistarci dentro per trovare una gamba della nostra bambola, gli occhiali del nostro compagno di banco, il bottone della giacca di nostro padre, la pentola della frittata. E invece non troviamo più niente, niente.
Nemmeno i rumori e gli odori sono più gli stessi, tutto perduto, tutto morto.
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L’estraneo e il familiare.
…alla maniera di Patrizia Gioia

Quello che gli eventi della nostra vita, non solo quelli più drammatici, dovrebbero indurci a tentare di fare è di ascoltare e guardare le cose da altri punti di vista, che non sono quelli che ci vengono, quasi naturali, ma che naturali non sono mai, perchè, spesso, sono abitudini indotte e finti bisogni, comodità e luoghi comuni.
Per l’Aquila ci stiamo tutti dando un gran da fare; su quella terra dolorante ci sono oggi quasi più “volontari” che abitanti; il sindaco chiama dai giornali “gli archistars” per ricostruire l’irricostruibile; si cercano fondi per inviare ai bambini scossi dal terremoto” professionisti del gioco”, perché i loro visi tornino quanto prima al sorriso.
Questa mia riflessione non è certo perché non credo sia importante, e necessario, far ritornare
il sorriso sulle labbra e negli occhi dei bambini (e degli adulti) sconvolti dal terremoto, ma perché credo che ancora una volta ci dimentichiamo che noi siamo lo spazio e il tempo e che lo smarrimento, il dolore della perdita, la mancanza di nuove parole per dire ciò che ancora dentro noi sta accadendo, richiedano, come il perdono, un difficile, doloroso e lungo processo.

“Quando scompare una persona amata” scriveva anni fa Pietro Citati parlando dell’irrompere
nella nostra quotidiana vita della morte di una persona cara “ci assale la separazione intollerabile,
la lacerazione che nessuno potrà ricucire, la ferita che nessuno potrà curare”.
E quando questa lacerazione arriva inaspettata e improvvisa e non rapisce solo la vita di una persona cara ma, come solo il terremoto sa fare, è tutto il nostro” familiare” che scompare: la casa, la strada, il banco della scuola, il bar, l’oratorio, il campo del calcetto, il bosco…più niente.
Scomparso tutto, più nessun punto di riferimento.
“Chi potrà tollerare la mano che di colpo porta via?- scrive ancora Citati – Chi potrà sopportare la rete che si spezza, l’assurdo diventato evidenza, l’imprevisto e l’imprevedibile che distruggono l’esistenza quotidiana? “
Sino a quel momento nessuno di noi conosceva lo scandalo dell’irruzione, ora e improvvisamente
l’estraneo si è sostituito al familiare e quello che si prova non è solo un inaspettato e sconosciuto disorientamento, è terrore e angoscia.
E’ la fine del tuo mondo.
Tutto ci è ora estraneo, anche l’altro, il soccorritore, è un intruso che non ci lascia in pace, che si accanisce sulle nostre rovine, nelle rovine dove vorremmo stare e starci da soli e rovistarci dentro, per trovare una gamba della nostra bambola, gli occhiali del nostro compagno di banco, il bottone della giacca di nostro padre, la pentola della frittata. E invece non troviamo più niente, niente.
Nemmeno i rumori e gli odori sono più gli stessi, tutto perduto, tutto morto.
Siamo tutti cambiati.

Quello che in questi momenti serve, forse e a parer mio, non sono solo i saltimbanchi, non sono solo gli archistars, non sono solo progetti di nuove case e nuovi giardini e nuove chiese, quello
che serve è “anche”e soprattutto saper ascoltare il dolore.
Il loro dolore e il nostro dolore, e ascoltarlo in silenzio, dandoci tutto il tempo di cui avremo bisogno, prendendo ognuno la mano dell’altro, proprio come quando da bambini si giocava al girotondo.
Quello che in questi momenti conta davvero è il silenzio della solidale umana vicinanza, che, attenta e silenziosa come una barca, ci possa seguire in quel nostro scuro mare, pronta a riprenderci per continuare il viaggio, quando sapremo e quando vorremo risalire.
Dobbiamo avere tempo e silenzio per poterci fidare ancora, di noi, dell’altro, di Dio, della vita.

Qualsiasi altro modo che non rispetti tempi e distanze, sarà ancora come la violenza cieca del terremoto, perché spesso e volentieri è più comodo e costa meno fatica dare un bello spettacolo
di marionette che posare i nostri occhi negli occhi di un bimbo ( ma anche di un adulto sofferente) perchè in quegli occhi ci sono domande che la voce non sa ancora, o non sa più , dire.
Ascoltare il dolore ci mette di fronte ai nostri limiti, alla consapevolezza, acquisita con la fatica dell’esperienza, che tutto non possiamo e condividere con l’altro queste incapacità è accettare e contenere e condividere la frustrazione, peculiarità dell’imperfetto essere umano, cosa che i nostri figli oggi poco sanno affrontare; oggi tutto non basta mai, tutto è dovuto, ad ogni costo.

Invece il vero dialogo nasce dal saper ascoltare il silenzio,che è un sapere autorevole e amorevole, come il gesto del padre che si siede alla sera sul letto del figlio per incontrarlo, è in questo gesto
che vive la relazione d’amore. Basta questo “sedersi” per ri-dare vita alla vita.
Il volere sempre di più è il dolore inespresso e mai voluto incontrare della perdita di questo gesto d’amore.

Ci sono molti “terremoti” nella vita di ognuno di noi, terremoti patiti da bambini e da adulti, terremoti che ci squassano alle radici, mettendoci di fronte all’imprevedibile irruenza del tragico
e incomprensibile della vita.
L’immagine che ho sin da bambina dinnanzi agli occhi, (ho vissuto a otto anni il mio primo
” terremoto” e dunque so di che cosa sto parlando, la mia non è solo teoria, ma sia ben chiaro, nessun vittimismo, è il rimanere vittima che fa nascere sempre un nuovo carnefice) è che la vita
è come un aeroplano che vola sopra la terra e che butta giù bombe e viveri, senza guardare, a chi tocca tocca, morte e vita camminano insieme, a noi comportarci di conseguenza.
Tradurre il senso degli eventi, e mai tradirlo è quel che ci fa essere incamminati verso l’Uomo.

So che non basta fare Convegni e farli in bei luoghi e con nomi importanti, non basta ma serve.
E’ necessaria l’azione, è necessaria la meditazione, è necessario il silenzio, è necessario sporcarsi
le mani nelle cose della vita, è necessario essere “tarli” delle istituzioni, è necessario il nostro seme e custodirlo e coltivarlo in un sociale che non vogliamo vada avanti per inerzia e per ignavia.
Ognuno deve fare al meglio ciò che sa fare, questo è aderire al proprio destino e tessere ogni giorno il filo che tiene insieme la rete comune dell’umanità, del divino e del cosmo.
Saper via via sostare nelle contraddizioni, è anche non temere di parlare di dialogo, di amore,
di non violenza, in luoghi deputati al jet set, all’abito firmato, alla chiacchera, alla facciata.
E’ tentare di ridare energia nuova a parole morte, è tentare di trasformare i “non luoghi” in nuovi luoghi umani, in tanti piccoli letti dove ogni sera possa sedersi nostro padre e dove nostro figlio possa ancora chiederci: perché?
Se ci daremo il tempo e lo spazio per trasformare ogni volta l’irruenza dell’estraneo dentro di noi, avremo meno paura anche dell’estraneo che sta bussando alla nostra porta, perché sempre più consapevoli e responsabili che il familiare vive in una relazione d’amore con l’estraneo, relazione sempre da rinnovare.

Patrizia Gioia, maggio 2009

Patrizia Gioia, L’estraneo e il familiareultima modifica: 2009-05-17T23:56:00+02:00da mangano1
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