Marco Belpoliti, Lo sguardo che uccide

da LA STAMPA 19 maggio 2009

Lo sguardo che uccide

MARCO BELPOLITI
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Guardarsi dritto negli occhi è pericoloso, come dimostrano alcuni episodi di cronaca in cui adolescenti si colpiscono a vicenda per uno sguardo di troppo.

In effetti, spiega Desmond Morris, quando due persone s’incontrano, e i loro occhi entrano in contatto, si trovano in uno stato di conflitto: desiderano guardarsi l’un l’altro, ma allo stesso tempo sono indotti a stornare lo sguardo. L’effetto, dice lo zoologo inglese, è una serie di movimenti oculari d’esplorazione, avanti e indietro, in cui si manifestano le reciproche intenzioni: interesse, attrazione, seduzione, repulsione, disprezzo, ostilità, odio. Lo sguardo a distanza ravvicinata – il solo che permette la comunicazione intensa – è proprio delle situazioni amorose, ma anche di quelle opposte.

Il superiore guarda con intensità il sottoposto, e la medesima cosa accade tra il potente e l’uomo comune. Nessuno riesce a reggere a lungo lo sguardo dell’altro, e per quanto, come nei bambini, l’incontro ravvicinato degli occhi faccia parte di un gioco reciproco, emerge ben presto a livello della coscienza il senso di una minaccia, e di solito uno dei due abbassa lo sguardo. Tempo fa un giornalista italiano ha raccontato come nelle vie di Napoli, ai semafori, vigesse, e forse ancora vige, la consuetudine di alcuni, di solito dei malavitosi, d’affiancarsi alle macchine e di fissare i guidatori sino a che questi non chinano lo sguardo. Un gioco che serve a ottenere per chi lo pratica una forma di dominanza sugli altri.

Tutto questo risulta quasi un paradosso in una società come la nostra che pone nell’atto del guardare il suo punto culminante. Tutti guardano sempre: il visore del computer, lo schermo della televisione, il display del cellulare. Guardare, ma senza mai essere guardati in modo diretto: questa è la convinzione del voyeurismo di massa, vero e proprio stigma della nostra epoca. Ed è vero anche il contrario: tutti vogliono essere guardati, ma solo dietro l’obiettivo della telecamera di un talk-show, di un reality, guardati dagli altri, ovvero dagli spettatori. La società del Grande Fratello è disposta a tutto per ottenere quel quarto d’ora di celebrità di cui parlava Andy Warhol, che è poi il quarto d’ora in cui si diventa un’immagine per gli altri o, meglio ancora, una icona, come ha specificato l’artista americano. Tutto deve essere visto, suona il leit motiv di questo periodo, tutto deve essere visibile, e l’immagine è divenuto il luogo per eccellenza di questa visibilità. Eppure, mai come ora ci si rende conto che non c’è nulla o quasi da vedere nella visibilità forzata della televisione, sosteneva nella sua ultima conferenza pubblica il filosofo Jean Baudrillard.
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Ed ecco che questi ragazzi e ragazze della cronaca nera propongono la realtà, e forse la verità, di uno sguardo che non è più solo virtuale e mono-direzionale, ne sanciscono la pericolosità – cosa del resto vera -, ma non sanno mettere in atto le naturali strategie per dirottarlo, occluderlo, o solo per chinare la testa e passare oltre. Forse quello che non reggono è proprio la realtà tout court, con le sue ambivalenze e le sue complessità. Per questo il gioco delle minacce, delle seduzioni eccessive, della vicinanza e della lontananza, scatena un panico che si riesce a tacitare solo con il gesto violento, là dove il pudore e la vergogna potrebbero invece risolvere il conflitto ravvicinato tra gli occhi, riconducendolo ad un sentimento non troppo avvilente di se stessi. Ma la paura della sconfitta, dell’insignificanza, della nostra nullità, ci attanaglia da vicino, e ci fa esplodere in tanti, piccoli episodi d’ordinaria follia quotidiana.

Marco Belpoliti, Lo sguardo che uccideultima modifica: 2009-05-19T21:53:00+02:00da mangano1
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