Prodotto di nicchia. È questo il destino dei quotidiani?
di Ritanna Armeni – 15/07/2009
Fonte: Liberazione
Con la brutalità, ma anche con la chiarezza dei quindicenni, Matthew Robson (foto), in una sconvolgente ricerca sul rapporto fra media e gli adolescenti per la Stanley Morgan, ha detto a proposito della stampa quotidiana che i suoi coetanei «non perdono tempo a sfogliare tante pagine quando possono trovare titoli o sintesi on line». Suscitano scandalo parole che affermano ciò che in molti già sappiamo ma che fatichiamo a pronunciare. In questo caso quelle sulla crisi dei giornali, sulle loro perdite nelle vendite, nella pubblicità e, talvolta, nella credibilità. Su quello che sembra il progressivo, ma inesorabile restringimento della capacità di penetrazione nell’opinione pubblica della stampa quotidiana e settimanale. Matthew Robinson ne ha denunciato lo scarso appeal presso gli adolescenti, ma i dati europei e internazionali parlano di calo delle vendite in generale anche presso gli adulti. Del resto chiunque può fare un’indagine personale. Mentre va al lavoro, prende il bus o la metropolitana, entra nel bar a prendere un caffè, provi a contare quanti hanno in mano un quotidiano. Di quelli che si comprano in edicola, naturalmente, non di quelli distribuiti gratis. Potrà fare una sua personale e veritiera statistica dei lettori della carta stampata.
La crisi è talmente grave che già qualche anno fa l’Economist prevedeva la scomparsa dell’ultimo quotidiano nel 2043. Mentre la situazione dei giornali Usa e la vendita, per far fronte al calo delle vendite e degli introiti, da parte del New York Times della sede, il grattacielo progettato da Renzo Piano, ha reso plasticamente la disfatta della stampa mondiale. Oggi – ci racconta Massimo Mucchetti sul Corriere della Sera – solo due gruppi editoriali uno inglese, The Economist e l’altro tedesco, quello di Axel Springer l’editore di Bild Zeitung e Die Welt sono in attivo, hanno aumentato il numero delle copie vendute e i ricavi on line. Esiste allora una ricetta per evitare la pronosticata fine della carta stampata? Lo stesso Mucchetti fa notare che le due eccezioni, quella inglese e quella tedesca, hanno conseguito l’obiettivo con due ricette diverse: qualità ed autorevolezza nel caso inglese, giornali popolari e territoriali con concorrenza diretta alla tv nel caso tedesco.
E l’Italia? In Italia non ci si interroga pubblicamente sulla crisi dei quotidiani. Nel momento in cui giornali piccoli e grandi parlano della situazione economica e finanziaria, analizzano nei minimi particolari e senza pietà la crisi dei partiti, discutono sui mali della scuola e dell’università evitano di esprimersi sulle loro difficoltà e di analizzarle come se queste non facessero parte della difficile situazione del Paese.
Pure qualche riflessione sulla stampa italiana e su come la crisi ha già influito su di essa si può cominciare a fare.
I quotidiani in Italia non hanno mai avuto la straordinaria diffusione che c’è stata negli altri Paesi (leggiamo poco) e si sono distinti per essere molto politicizzati e poco popolari. Queste loro caratteristiche unite all’attuale declino hanno già provocato o accentuato un cambiamento. Oggi nessuno osa dirlo ma non esistono grandi giornali nazionali. Esistono solo giornali di nicchia. Nicchie più o meno piccole o più o meno grandi. Una nicchia piccola significa un bacino di 2.000 lettori o meno, una grande di 200mila o poco più, ma questa è già la realtà.
Quali le conseguenze? In questa realtà acquistano paradossalmente un peso maggiore i piccoli giornali il cui ruolo nella formazione dell’opinione pubblica e nella battaglia delle idee ha un peso specifico superiore rispetto ai giornali che sono ritenuti grandi, ma che non hanno poi veramente i numeri per influenzare più di tanto l’opinione pubblica. È, inoltre, già abbastanza evidente che anche quelli che sono ritenuti importanti quotidiani nazionali, proprio perché di nicchia e con una tradizione di politicizzazione, si sono già trasformati. Sono tutti divenuti “secondi giornali” (rispetto all’informazione tv) o giornali-partito. Tutti rappresentano solo una parte ben delimitata della società e dell’opinione pubblica: il centro moderato, la borghesia progressista, il riformismo pluralista, l’intransigenza valoriale, la sinistra, la propaganda berlusconiana, il mondo cattolico più osservante. Tutti per mantenere e non restringere la propria nicchia abbandonano le illusioni dell’obiettività e dell’imparzialità e innalzano una loro bandiera. Tutti dichiarano nei fatti la propria inclinazione a formare oltre che informare. Ecco, la risposta italiana alla crisi non può che partire da qui.
Queste trasformazioni, se riconosciute, vissute e valorizzate, possono non essere del tutto negative. Possono persino aiutare il Paese a uscire da una sorta di apatia intellettuale nella quale è caduto, a ricostruire punti di vista, a condurre battaglie di idee. Possono portare la carta stampata a ben radicarsi nella società seppure in modo diverso da come siamo abituati a pensare. E a dare – nel ridimensionamento – una soluzione alla sua crisi. Non in termini di copie vendute – questo mi pare impossibile – ma di credibilità e di ruolo, di nuova indipendenza. Il coraggio di riconoscere i propri limiti e di giocare su un altro terreno è la condizione indispensabile perché la stampa quotidiana non perda il confronto con l’altra faccia dell’informazione, quella televisiva, che dilaga con notizie e immagini e occupa spazi che la prima non può più coprire. Un’ informazione televisiva la cui impronta in Italia è oggi decisamente governativa e berlusconiana. Si tratta di costruire e raccontare dove l’altra spesso nega, distrugge e disgrega, fornire nuovi modi di pensare che forse qualche volta possono apparire minoritari, poi influiscono sull’opinione pubblica. Non so se ci riuscirà o se continuerà a seguire strade ormai superate, ma questa è la nuova sfida.