Giuseppe Muraca Carmine Abate, grande scrittore calabrese

Giuseppe Muraca
Carmine Abate, grande scrittore calabrese e cittadino del mondo

juan-torre-211x300.jpg

Ho conosciuto Carmine Abate nel 2000, dopo l’uscita del suo secondo romanzo, La moto di Scanderbeg, presso l’editore Fazi di Roma, che aveva da poco ristampato anche Il ballo tondo. L’impressione che ho ricevuto sin dal primo momento, poi confermata negli incontri successivi, è stata quella abbastanza particolare di avere davanti a me un inguaribile e generoso sognatore, che coi suoi occhi grandi, vispi e profondi sembra fissare e inseguire continuamente l’orizzonte lontano alla ricerca di una meta forse irraggiungibile.

Era il tempo in cui lui girava per la Calabria e per l’Italia con una grossa auto di vecchia cilindrata per presentare i suoi libri, assomigliando un po’ allo sfortunato eroe del suo secondo romanzo, Giovanni Scanderbeg, che sognava un mondo diverso e che correva in sella alla sua Guzzi Dondolino per le campagne assolate del marchesato nell’immediato dopoguerra, al tempo delle lotte contadine contro il latifondismo. Sì, è proprio un sognatore Carmine Abate, un uomo che si sente un “cittadino del modo”, cioè che immagina sempre un mondo senza confini e senza barriere, che chiama gli altri per nome e li considera fratelli. Così dietro quel viso che a prima vista sembra ostentare sicurezza si nasconde, in realtà, un’inquietudine di fondo, l’ansia di un uomo che corre da un capo all’altro del nostro paese e dell’Europa, che è sempre alla ricerca di se stesso, di un’identità perduta che è ormai impossibile recuperare pienamente, di una via di fuga da una realtà disumana e opprimente, di un equilibrio interiore sempre agognato e mai raggiunto pienamente, nel tentativo di dare un senso alla vita e un ordine al caos di un mondo che sempre più sta andando a pezzi, cancellando selvaggiamente secoli di storia millenaria e minacciando persino la nostra presenza sulla terra. Non a caso questa frase de La moto di Scanderbeg: “Se ti dicono di restare parti se ti dicono di partire resta” può essere benissimo considerata la summa del pensiero e dello stile di vita di questo scrittore.

Abate si è fatto le ossa scrivendo poesie, poi ha scritto insieme alla moglie Meike Behrmann, sociologa tedesca, un saggio socio-antropologico, I germanesi, in cui ha analizzato, con metodi scientifici, la realtà e i flussi migratori del suo paese e la condizione dei suoi paesani emigrati in Germania, e soltanto dopo un lungo apprendistato si è calato nei panni del narratore. Al loro apparire i suoi primi racconti e Il ballo tondo erano passati quasi inosservati e non avevano ricevuto l’attenzione che meritano. Poi la pubblicazione del suo secondo romanzo, La moto di Scanderbeg, e l’immediata e successiva ristampa del primo lo avevano proiettato all’attenzione della critica più accorta e gli avevano fatto conquistare l’interesse incondizionato di un sempre maggior numero di lettori. Un successo meritato perché Il ballo tondo è un libro bellissimo, straordinario e di raro equilibrio narrativo, un romanzo di formazione davvero inconsueto, dal respiro corale dove la storia di Costantino Avati e della sua famiglia s’intreccia con le vicende collettive di un intero paese. Così la mitica Hora, proiezione simbolica di Carfizzi, suo paese natale, diventa una sorta di palcoscenico su cui una miriade di personaggi singolari lotta quotidianamente per realizzare i suoi sogni e una migliore condizione di vita e che nella vita quotidiana, nella sua cultura, nei suoi costumi e nei suoi riti rivive il vecchio mito dell’eroe Scanderbeg che ha difeso la sua patria contro i Turchi sacrificando la sua vita per il bene comune. Una sorta di storia circolare, ciclica che ha il sapore e il tono dell’epopea, scandita secondo i tempi e il ritmo del canto popolare e del “ballo tondo”, appunto. La moto di Scanderbeg ha confermato la vena popolare e la grazia di questo scrittore che ha ambientato la sua nuova storia tra la sua Hora e la Germania, meta privilegiata degli emigranti di Carfizzi e dello stesso scrittore e della sua famiglia. Il romanzo ruota intorno alla figura tormentata e contraddittoria di Giovanni Alessi, un intellettuale sradicato di origine arberesh alla continua ricerca della propria identità e diviso fra l’amore controverso per la bella Giulia Camarda e il richiamo e il rimpianto delle proprie radici e della propria terra. Sullo sfondo c’è sempre il mito di Scanderbeg che rivive nella figura leggendaria del padre di Giovanni, uomo forte, generoso e ribelle che nell’immediato dopoguerra si pose alla testa dei contadini nella lotta per la giustizia sociale, correndo da un capo all’altro del marchesato sulla sua rombante Guzzi Dondolino. Dopo la morte di Scanderbeg, che cade da una rupe per una stupida scommessa, la moto passa in eredità del figlio Giovanni, rappresentando di fatto l’anello che lo collega strettamente alla memoria del padre e del proprio passato. La “storia” viene raccontata da diverse “voci” narranti: a pagine scritte in prima persona singolare e di carattere diaristico, vengono infatti intercalate pagine scritte in terza persona singolare o in prima persona plurale, un “noi” che corrisponde al gruppo degli amici di Giovanni. La moto di Scanderbeg è un’opera quindi a “mosaico” in cui i vari frammenti sono però incastonati armonicamente in una struttura unitaria e compatta, con passi di intenso e struggente lirismo che s’intrecciano con momenti di ispirazione autobiografia o di indagine sociale e antropologica. Impegno politico e civile vengono infatti fusi in un’opera di alta resa stilistica e di rara efficacia letteraria. I due primi romanzi di Abate sono strettamente legati fra loro e quindi compongono un vero e proprio dittico, la cui importanza non dipende soltanto dalla loro singolare pregnanza e dal loro valore letterario ma anche dal fatto che essi rappresentano un affresco sincero, fedele e veritiero del mondo contadino e popolare del nostro mezzogiorno.

Dopo questi due libri folgoranti, sono arrivati gli altri romanzi, Fra due mari, La festa del ritorno, Il mosaico del tempo grande e la ristampa delle sue prime opere letterarie e saggistiche, tutti libri di un certo peso e di alta qualità letteraria, momenti diversi di una storia dei calabresi scritta in chiave narrativa, in cui Abate riesce a mostrare con singolare efficacia le sue particolari doti e capacità di affabulatore e di artista. E così libro dopo libro lui ha costruito la sua fortuna (come mattone dopo mattone si costruisce una casa), con umiltà, tenacia e cocciutaggine, perseguendo testardamente il suo disegno, fino a conquistare un posto di primo piano nel panorama letterario italiano e internazionale. Ora i suoi libri vengono tradotti e letti in tanti paesi, hanno vinto importanti premi letterari e lui è considerato, giustamente, uno dei maggiori scrittori europei degli ultimi vent’anni. Ma nel frattempo lui non è cambiato, non si è montato la testa e non si è insuperbito, è rimasto il ragazzo umile, generoso e smaliziato di un tempo, che nasconde e coltiva per anni dentro di sé, segretamente le sue storie e poi le tira fuori come un prestigiatore, le fa emergere dalla memoria trasformandole in perle preziose, in piccoli gioielli narrativi, come d’incanto.

Come lui stesso ha spiegato ripetutamente, la sua lingua ha infatti un timbro particolare, il suono intenso, arcano e magico delle antiche rapsodie popolari che le nonne ci raccontavano accanto al focolare, dei racconti dei vecchi cantastorie che giravano per le nostre contrade in tempi ormai lontani, un ritmo e una musica che incantano e trascinano il lettore, come “una voce netta che sembra[…] arrivare da un mondo lontano, da un altro tempo”; una lingua colorita e intensa che però porta dentro di sé i segni del dolore, del sudore, delle sofferenze e della ferite di un intero popolo che per le follie della storia oltre cinque secoli fa fu costretto a fuggire dalla sua terra devastata dai Turchi, ad abbandonare le sue case e a disperdersi per il mondo e che ancora oggi è costretto ad emigrare per sfuggire di nuovo alla guerra, alla miseria e all’isolamento alla ricerca di una migliore condizione di vita. Una lingua antica e moderna, al tempo stesso, arricchita da tutte le lingue della vita e della formazione culturale di questo scrittore (l’arberersh dei suoi avi, l’italiano imparato a scuola, il dialetto calabrese e il tedesco assimilato nei lunghi periodi di emigrazione in Germania, ecc.), che ha frequentato l’Università a Bari, ed è emigrato sin da ragazzo in Germania dove ha trascorso lunghi periodi, prima come studente-lavoratore e poi come insegnante d’italiano, e si è poi stabilito in Trentino (in un terra di confine e di mezzo, come l’ha definita lui, tra la Calabria e la Germania) dove insegna lettere con la passione di un novizio ai ragazzi della Scuola Media. Lui ha quindi vissuto sulla propria pelle il problema dell’emigrazione, che se da un lato ha rappresentato un’esperienza dolorosa e traumatica, per altri versi è stato da lui considerato in maniera positiva, cioè come un momento di continuo arricchimento culturale e antropologico, come un’esperienza che gli ha permesso di ampliare continuamente le sue conoscenze e di interagire e di integrarsi con altri mondi, altre razze e altre culture. E questo è senza dubbio un aspetto importante che lo distingue nettamente dagli altri scrittori meridionali che hanno sempre considerato il problema dell’emigrazione in maniera estremamente negativa. Le sue storie affondano quindi le radici in mondi diversi e in culture diverse, che fanno ormai parte integrante del suo bagaglio culturale, della sua natura e della sua essenza di uomo e di scrittore. Abate è infatti uno scrittore cosmopolita che continua a nutrirsi però della vecchia saggezza contadina, quasi alla continua ricerca di quelle certezze che non riesce a trovare diversamente. I suoi libri infatti sono disseminati di citazioni, di proverbi, di vecchi canti arbereshe, di frammenti di canzoni popolari moderne, che arricchiscono la narrazione e la rendono molto suggestiva e avvincente. Pertanto la sua opera non ha solo un’importanza prettamente letteraria e culturale ma anche di carattere antropologico in quanto presenta un ampio e approfondito repertorio di notizie su tradizioni, usi, costumi e riti appartenenti alla civiltà contadina, cioè a un mondo che non esiste più o che sta per scomparire per sempre. Non a caso l’antropologo calabrese Vito Teti ha seguito con grande attenzione l’attività letteraria di questo scrittore sin dall’inizio della sua carriera. Il suo mondo è immerso in un alone fantastico, mitico, leggendario, ma pochi scrittori come lui sono così radicati nella realtà del nostro tempo, hanno saputo rievocare con pari intensità il trapasso dalla civiltà contadina al mondo moderno e postmoderno. E la linfa vitale dei suoi racconti nasce proprio dall’osservazione attenta e diretta, quasi maniacale dei fenomeni della natura, della realtà di tutti i giorni, dei più elementari fatti della vita e dei genuini sentimenti dell’uomo comune, dalla rivisitazione in chiave mitica della figura leggendaria di Scanderbeg, della storia del popolo albanese e degli arberesh di Calabria, dagli eventi traumatici e dolorosi che hanno segnato il nostro tempo. E proprio da qui nasce il suo impegno civile, il suo spirito di denuncia (che non diventa mai retorica), la sua indignazione per lo scempio dell’ambiente naturale, il suo dolore per una vita che conclude il suo ciclo o per le tragedie della storia.  

Il suo ultimo romanzo, pubblicato lo scorso anno dall’editore Mondadori (come il resto dei suoi libri più importanti), che da alcuni anni è diventato il suo editore di fiducia, si intitola Gli anni veloci (con chiaro riferimento agli anni della giovinezza spensierata che volano via presto e al corridore Pietro Mennea) ed è ambientato in una Crotone (che è stata una delle città più industrializzate del mezzogiorno ma anche una delle più splendide città della Magna Grecia, antica e ricca di storia e di cultura millenarie) anni settanta non ancora devastata dalla crisi economica, quando la gioventù di allora pensava e sognava, appassionatamente e generosamente, di cambiare il mondo (ed è stata invece tradita nelle sue più grandi e segrete aspettative, illusioni  e speranze) ascoltando le canzoni di Lucio Battisti e di Rino Gaetano, “ragazzi” sfortunati ma amati da un’intera generazione di giovani. Lì vivono e lottano i personaggi del romanzo. E lì s’incontrano e s’innamorano i due principali protagonisti, Nicola e Anna, due giovanissimi studenti che vivono il loro amore, che coltivano i loro sogni e creano i loro miti intensamente: lui di diventare veloce come Pietro Mennea e lei di incontrare il successo con la voce di Lucio Battisti, insieme a una comunità di giovani che come nel Decameron di Boccaccio trascorre il suo tempo e i suoi svaghi nei dintorni di Capo Colonna, consumando pasti saporiti e appetitosi e raccontando i fatti della loro vita, tra canti e balli, immersi quasi in una realtà mitica e senza tempo. Ad un certo punto la vita li divide e separatamente proseguono il loro cammino. Lui la cerca sempre come per inseguire un antico sogno e non sa darsi una ragione del suo doloroso addio; ma lei è scostante, soffre e lotta orgogliosamente, e coltiva e nasconde gelosamente dentro di sé un segreto, che soltanto alla fine svelerà.  Lo stile di questo libro è in parte diverso da quello degli altri romanzi: è uno stile appunto veloce, semplice, ma sempre vigile, controllato, intenso e ricco e mai banale e superficiale, per una tenera e sofferta storia d’amore, per un libro intrigante, che si legge d’un fiato. Una vena leggera leggera di malinconia e di rimpianto per la giovinezza trascorsa e per i sogni svaniti e perduti per sempre attraversa questo romanzo, che non compromette però l’ottimismo di fondo di questo scrittore, che malgrado le tante delusioni e amarezze subite continua a vivere la vita carico d’illusioni, di sogni e di speranza. Sì, perché, per parafrasare una singolare canzone di Jovanotti, Abate è un uomo e uno scrittore che “pensa positivo” e non si lascia prendere e vincere mai dallo sconforto e dall’abbattimento.

Il suo ultimo libro di racconti, pubblicato da pochi mesi, sempre dal suo editore milanese Arnoldo Mondadori, ha un titolo davvero singolare che rispecchia però fedelmente il percorso della sua vita e il suo modo di pensare rispetto ad una realtà che cambia continuamente e che ha lasciato dietro di sé i detriti e le macerie di un mondo che non esiste più: Vivere per addizione e altri viaggi. A prima vista potrebbe sembrare un libro minore, ma non è così; invece rappresenta, a mio modesto avviso, la summa della sua attività di scrittore. Al centro delle sue storie c’è ancora una volta il tema dell’emigrazione e del viaggio, o, meglio, dei viaggi: viaggi attraverso il tempo e lo spazio, attraverso la memoria e la storia del nostro popolo, il suo dolore e le sue sofferenze. Il libro è diviso in tre parti: Prologo di andata e ritorno, Altri viaggi ed Epilogo provvisorio, e se alcuni di questi racconti possono benissimo essere considerati i frammenti narrativi, le epifanie di una possibile autobiografia, altri invece rievocano luoghi della nostra regione e ed eventi degli ultimi anni contrassegnati da un sempre più massiccio degrado ecologico e ambientale e dal fenomeno dell’immigrazione di massa che ha sconvolto il nostro assetto sociale, culturale e antropologico e la nostra stessa identità. Sono quindi storie diverse, alcune ambientate nella sua Carfizzi (la mitica Hora dei suoi romanzi arberesh) e in Calabria (sempre in bilico tra passato e presente, tra mito e realtà), altre ancora in Lombardia e in altri luoghi del nostro paese, altre in Germania, ma i vari frammenti sono, come nei suoi precedenti libri, incastonati in un ordito compatto e omogeneo, in un disegno unitario. E infatti Abate non fa mai le cose per caso, e ha sempre cercato di costruire i suoi libri come un artista il suo mosaico. E insieme al tema del viaggio ritornano qui i motivi più ricorrenti della sua opera: l’amore per la propria terra, per la sua donna e per la propria famiglia, l’amicizia che vince le barriere del tempo e della lontananza, il piacere della buona tavola e della bella compagnia, ecc., Ma alla base di tutto il suo discorso c’è un amore struggente e indomabile per la vita. Si spiega in questo modo la vitalità di fondo che alimenta costantemente questo scrittore, che in qualsiasi cosa che fa trasmette un entusiasmo e una passione indescrivibili. È vero: lui parla del popolo arberesh, delle sue lotte e delle sue profonde ferite, dei calabresi e della Calabria, scrive di e da una delle tante periferie del nostro pianeta, ma non è mai monotono e provinciale come può sembrare a prima vista, bensì è scrittore cosmopolita e universale. L’ho critto quasi dieci anni fa e lo ripeto in questa sede: con questo scrittore la letteratura calabrese è di nuovo uscita dal chiuso provincialismo in cui era caduta nell’ultimo ventennio ed è riuscita a porsi di nuovo all’attenzione della cultura internazionale, tanto che la Calabria è ridiventata il baricentro dell’area mediterranea, crocevia di razze diverse che convivono in una realtà ricca di tradizioni e di cultura. E quindi ritornano in questo libro i tratti caratteristici e singolari del suo mondo, della sua “geografia dell’anima”, il suo plurilinguismo così intenso e suggestivo, il suo singolare impasto linguistico che si arricchisce continuamente di nuovi strati, di nuovi valori, di nuove esperienze di vita e di cultura, e che, per quanto è dato dalle nostre conoscenze, non ha eguali nell’attuale panorama della letteratura mondiale. Uno stile che col tempo ha addirittura guadagnato limpidezza e freschezza. Perché Abate ha il pregio davvero unico di saper raccontare le sue storie, di inventare, di rigenerare e di rendere eterni i miti, perché sa benissimo che uno dei principali compiti della letteratura e dell’arte è quello di creare dei simboli capaci di sopravvivere al silenzio e alla morte. Come soltanto i grandi scrittori sanno fare.   

Giuseppe Muraca Carmine Abate, grande scrittore calabreseultima modifica: 2010-08-09T16:51:51+02:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo