Lucia Annunziata,Ogni Paese si ribella per conto suo

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Ogni Paese si ribella per conto suo
LUCIA ANNUNZIATA

«A perfect storm», una tempesta perfetta. Immagine che torna spesso nella parlata americana, mutuata dalle previsioni del tempo per descrivere l’allineamento negativo di ogni condizione meteorologica, divenuta popolare con uno struggente romanzo sulla morte di un gruppo di pescatori (e di un pezzo di cultura americana) della costa del Nord East nel corso della tempesta perfetta del novembre del 1991, ed entrata in questi ultimi anni nel discorso pubblico, per indicare il più grande dei possibili disastri.

Che questa metafora sia stata usata a Monaco un po’ di giorni fa anche dal segretario di Stato Usa per descrivere all’Europa cosa gli americani temano per il Medioriente, è il segno di quanto estremo sia il timore che avviluppa Washington di fronte ai nuovi eventi. Per capire le scelte americane oggi, bisogna dunque forse rileggere quel discorso di Monaco, che pare avere un posto molto unico negli andazzi diplomatici di questi anni: raramente ne abbiamo sentito uno con meno mezze misure, così senza giri di parole, insomma così drammatico. «L’intera regione è sotto i colpi di una perfetta tempesta provocata da poderosi nuovi trends», dice la Clinton, presentando nella lista dei fattori di crisi temi che finora sono stati solo nelle agende delle analisi più radicali: una popolazione giovane, la repressione politica, la disparità economica, e la progressiva riduzione delle riserve di petrolio e acqua. Le conclusioni sono qualcosa a metà fra un monito e un ordine ai governi arabi: «Questo è quello che ha portato i dimostranti nelle strade in tutte le città della regione. Alcuni leader possono credere che il proprio paese sia l’eccezione, che la sua gente non domanderà più opportunità politiche ed economiche, o che si accontenterà di mezze misure. Forse, nel breve tempo, potrebbe anche essere così, ma nel lungo periodo nulla di quello che vediamo oggi può tenere. Lo status quo è semplicemente insostenibile».

Ad aggiungere peso a questa ammonizione, va ricordato che già a gennaio, in un viaggio nel mondo arabo che oggi, con il senno di poi, può essere descritto come una prima missione di avvertimento, la Clinton aveva detto (quasi) le stesse cose. Il timore che alberga a Washington in queste ore non è dunque strettamente provocato dalle rivolte in corso; né sembra mitigato da nessuna delle decisioni che vengono prese ora dopo ora. Di cosa hanno paura esattamente, gli Usa? Solo della combinazione micidiale di terrorismo e petrolio? O c’è di più? Insomma, di cosa altro è fatta questa tempesta perfetta? Bisogna trovare risposta a queste domande per capire Washington, noi e a che punto siamo tutti in questa storia.

Una delle possibili ragioni del panico degli americani, è che probabilmente essi si rendono conto che si trovano di fronte non a uno ma a molti eventi che precipitano tutti insieme. Formalmente simili, ma sostanzialmente molto diversi. Nonostante sia prevalsa soprattutto nei media una narrazione che lega le varie tensioni in una unica rivolta, con le stesse radici e le stesse aspirazioni, (l’89 arabo, la Tienanmen degli shebab, la rivoluzione araba democratica, il neopanarabismo moderno) in verità di comune hanno solo le forme di protesta, e l’attacco ai governi: in ciascun Paese però queste richieste hanno una diversa radice, un diverso significato, e un diverso potenziale sviluppo. Fra i primi due casi, la rivolta tunisina e quella egiziana, le differenze si sono già fatte ovvie in questi giorni. Nella Tunisia francofona e secolare, una eccezione nel mondo arabo, si è ribellato un esercito di giovani con la mente oltre che il cuore più vicino all’Europa che all’Africa, e ha avuto buon gioco contro Zine el Abidine ben Ali, un anziano cleptocrate più che un dittatore.

In Egitto si è messo in moto invece un Paese di 80 milioni di abitanti, attraversato da tutte le ansie e le contraddizioni del mondo arabo fra modernizzazione, religiosità, apertura economica e allargarsi delle distanze sociali. Nella piazza egiziana abbiamo così visto sfilare i volti di un sistema che è molto simile all’Apartheid: da un parte quel po’ di classe media acculturata prodottasi in questi anni di relative riforme economiche (i ragazzi di Internet) e dall’altra i poveri assoluti, che in Egitto, ricordiamolo, vivono con una media di 2 dollari al giorno. Una rivolta che può sintetizzarsi in due bandiere: Pane e Internet. Per la storia e il ruolo del Cairo, queste domande richiedono quasi obbligatoriamente la democratizzazione della politica e della società egiziana. Come è successo in Tunisia. Ma si può dire lo stesso delle altre tensioni che covano nella regione?

Prendiamo allora un altro caso, la Giordania, in cui la scorsa settimana la pressione popolare ha ottenuto dal Re un cambio di gabinetto e un impegno a una nuova fase di riforme. Se non si trattasse di cose serie, ci sarebbe da ridere. La famiglia reale hashemita ha tutto il potere, è vero, ma nella composizione sociale del piccolo regno – privo di petrolio e quasi totalmente dipendente dagli aiuti americani, per il ruolo che ha nelle relazioni con l’Iraq – la Monarchia è sempre stata di idee sociali più avanzate della base del Paese, influenzata dall’estremismo politico palestinese, e, più di recente, da un radicalismo religioso antioccidentale e antiamericano. Un piccolo dettaglio: ad Amman è la regina Rania a usare Twitter come suo preferito strumento di comunicazione, e la base radicale vi vede un altro segno di decadenza reale. Certo c’è disagio economico, certo nelle strade di Amman scendono i giovani – ma le loro domande non c’entrano assolutamente nulla con la democratizzazione.

Il caso Yemen, anche questo inserito nella lista delle rivoluzioni mediorientali in nuce, appare invece decisamente drammatico nel suo travisamento. Anche il piccolo Paese che vanta i natali della regina di Sheba, nonché il maggior livello di povertà del mondo arabo, ha visto migliaia in strada all’inizio di febbraio in protesta contro il governo. E anche lì Obama ha chiesto di intraprendere la strada delle riforme. E come dare torto a tutti loro: il vecchio presidente Ali Abdullah Saleh governa da 32 anni, facendo il bello e il cattivo tempo, e tenendo però fermamente ancorato al suo fianco l’alleato americano che nei passati cinque anni ha donato al Paese 250 milioni di dollari in aiuti militari. Yemen è infatti per gli Usa un punto delicatissimo, essendo diventato il nuovo snodo operativo di Al Qaeda: nel 2008 proprio al Qaeda rivendicò un letale attacco all’ambasciata americana nella capitale yemenita. Lo Yemen è oggi il maggior mercato d’armi della regione. Si calcola che su 20 milioni di abitanti si contino almeno 20 milioni di armi – cioè una a testa inclusi i bambini.

Dobbiamo davvero credere che chi sfila nella strade di Sana’a somigli ai giovani cairoti

Lucia Annunziata,Ogni Paese si ribella per conto suoultima modifica: 2011-02-10T17:52:05+01:00da mangano1
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