P.Paolo Segneri, Quando Salvemini lasciò “La Voce”

PIER PAOLO SEGNERI
Quando Salvemini lasciò “La Voce”: un liberale vero

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30-03-2011
Sono trascorsi cento anni esatti. Nel 1911, infatti, scoppiò la guerra in Libia. E proprio in quel frangente e per quel motivo, lo storico e politico Gaetano Salvemini ruppe la sua collaborazione con La Voce, la prestigiosa rivista letteraria fondata e diretta da Giuseppe Prezzolini. Un tale divorzio culturale vi fu perché, malgrado la crescente e preoccupante ubriacatura nazionalista, malgrado il rischio concreto di altre guerre, malgrado il montare dell’opacità politica e nonostante la cupidigia di una classe dirigente che si muoveva lungo il percorso segnato da precisi interessi economici, la rivista di Prezzolini era rimasta neutra, ferma su posizioni attendiste, senza una propria linea chiara e decisa, tutta immersa in una “coltura” irreale e sganciata dall’attualità degli avvenimenti in corso. Con il suo acceso temperamento, invece, Salvemini non poteva certo accettare un approccio prudente ma, al contrario, riteneva necessario che la rivista assumesse un impegno più diretto, più critico, più forte. Insomma, secondo Salvemini, la situazione richiedeva una scelta di campo che spezzasse il conformismo e il fanatismo nazionalista del suo tempo.

Ma quel monito, così veemente e sentito, restò inascoltato. Tanto che, in una missiva, scrisse: «La conciliazione è impossibile ormai», ammise Salvemini in una lettera a Prezzolini del 1911. «Lo stato d’animo di questi tre anni passati è superato. La Voce non può essere più quella che è stata. Occorre dividerci». E il sodalizio tra i due finì. Ma non basta. Proprio in quel momento, all’interno del partito socialista, Salvemini si scontrò anche con la corrente maggioritaria di Filippo Turati e, in seguito ad una mancata manifestazione del partito contro lo scoppio della guerra di Libia, preferì lasciare il partito socialista. Sulla scia di questi due distacchi, nel dicembre 1911, Salvemini diede vita al periodico L’Unità, che diresse fino al 1920, perseguendo il tentativo di fondare un nuovo partito, la Lega democratica, meridionalista, socialista nei fini di giustizia e liberale nel metodo, contro ogni privilegio. Fu questa simbiosi tra il “metodo liberale” e la perseverante ricerca di giustizia sociale che segnò il pensiero di Salvemini divenendone la sua stessa bussola politica, per tutta la vita. Anche dopo la seconda guerra mondiale. Come un moderno liberale. Però, nel senso inglese e non in quello continentale.

Pier Paolo Segneri

Membro della Giunta esecutiva di Radicali Italiani e Presidente dell’Associazione Radicale “Pier Paolo Pasolini” di Frosinone

Non a caso, scrisse: «In Inghilterra continuò a chiamarsi “liberale” solamente chi militava in quel partito che si opponeva al partito conservatore. Questo partito “liberale” inglese ebbe sempre un’ala sinistra o “radicale”, mentre vi fu sempre una trasmigrazione di elementi dell’ala destra liberale verso il partito conservatore.

Ma chi trasmigrava così, cessava onestamente di chiamarsi “liberale” e si diceva senz’altro conservatore». Per poi affrontare questo ragionamento applicandolo nella realtà politica italiana: «Vi sono senza dubbio in Italia dei “liberali” secondo il significato della parola nella lingua inglese. Mi pare di vederne alcuni fra i libertari, i repubblicani, gli azionisti e quei socialisti-democratici che non vanno come cagnolini dietro a Togliatti. Se Piero Gobetti fosse ancora vivo, sarebbe uno di questi “liberali”». Tornato in Italia nel 1949, dopo la lunga parentesi negli Stati Uniti, Salvemini riprese l’insegnamento all’Università di Firenze e continuò a vari livelli la sua lotta politica, ispirata a una visione laica della vita, all’avversione contro dogmatismi e fumosità ideologiche, contro la burocrazia, il clericalismo e lo statalismo, imponendosi nel dibattito pubblico italiano come un libertario, cioè fuori dagli schemi consolidati, però rimanendo sempre un convinto riformatore e democratico, spesso e volentieri agendo in piena sintonia con Ernesto Rossi. In quegli anni, Salvemini si oppose al governo democristiano e al Fronte Democratico Popolare, sostenendo la necessità di abrogare il Concordato e i Patti Lateranensi, e difendendo la scuola pubblica contro le riforme, da lui giudicate reazionarie, dei governi di allora. Da liberale, nel senso anglosassone, era convinto che fossero le idee a muovere il mondo e riteneva la circolazione delle idee il presupposto per qualunque democrazia. Oggi, certi toni e certi temi, sono riproposti con un’attualità sorprendente da Pannella. È la memoria viva di qualcosa che non è rimasto impigliato nel passato, ma ha continuato ad avere una presenza lungo il corso del tempo. È per questa ragione che queste parole di Salvemini sembrano scritte oggi: «Un uomo vale quanto sa. Se gli si proibisce di apprendere nuovi fatti e nuove idee, gli si mutila l’anima e la gravità della mutilazione è proporzionata alla durata della sua ignoranza. Senza una libera stampa, un popolo diventa cieco, sordo e muto. Si torna inconsciamente al sistema medievale del clan. Vi regna una notte perpetua in cui vagano spiriti smarriti vuoti di idee».

*da Il Secolo d’Italia

P.Paolo Segneri, Quando Salvemini lasciò “La Voce”ultima modifica: 2011-04-01T12:47:44+02:00da mangano1
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