GUIDO NICOLOSI La legge Gelmini sull’Università: riforma mancata

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La legge Gelmini sull’Università: riforma mancata

12-04-2011
La legge Gelmini sull’Università approvata in Parlamento a dicembre viene spesso presentata dagli esponenti della maggioranza come la prova più evidente dello spirito riformatore di questo esecutivo. E’ opinione di molti, tra gli addetti ai lavori, che si tratti più semplicemente del definitivo compimento di un processo eutanasico che nel corso degli anni ha in modo bipartisan gravemente compromesso il sistema della ricerca e dell’alta formazione in Italia.
Comunque la si pensi, ciò che appare assai grave è il fatto che il nostro Paese abbia affrontato un processo riformatore così importante e delicato, un nodo fondamentale per il nostro destino culturale, sociale ed economico, senza un serio e approfondito dibattito. I cittadini non hanno avuto la possibilità di essere informati e di discutere sulla reale posta in gioco e sugli effetti che questo processo riformatore avrebbe avuto sulle famiglie e sul futuro del sistema Italia. Anche i partiti, tutti, hanno rinunciato a discutere al loro interno la portata di questo processo.

A pochi mesi dall’approvazione della legge Gelmini, l’Università italiana è nel caos a causa della farraginosità di un meccanismo normativo assai complesso ed eccessivamente burocratico. Nei laboratori di ricerca, così come nelle aule, specie tra i più giovani, prevale un sentimento di smarrimento e demotivazione. Non sono pochi i ricercatori già vincitori di concorso (la maggior parte con meno di 45 anni) che hanno lasciato l’Università per seguire altri e più remunerativi percorsi professionali. E’ un segnale che denota una perdita di attrattatività assai pericolosa.

Tra i docenti più anziani, invece, prevale un sentimento di rassegnazione in attesa di un pensionamento spesso molto ravvicinato, a causa dell’età media inaccettabilmente alta del nostro corpo docente. Molti di loro hanno addirittura deciso di anticipare l’uscita per evitare gli effetti sul trattamento di fine rapporto del combinato disposto Gelmini-Tremonti. Gli studenti sono attoniti e sfiduciati. I ricercatori precari stanno subendo un lento e silenzioso licenziamento di massa sotto la veste “soft” della mancata riconferma dei contratti e delle borse. A loro, ovviamente, nessuna cassa integrazione ammortizzerà la caduta. I docenti più combattivi, invece, hanno intrapreso la strada dei ricorsi ai TAR per tutelarsi rispetto ad una legge finanziaria che ha attivato un meccanismo di congelamento degli stipendi che ha paradossali conseguenze sperequative. In pratica, i più giovani, quelli con la posizione più bassa nella gerarchia accademica e con gli stipendi più leggeri dovranno pagare di più. Il “Sole 24 Ore” stima che un ricercatore ad inizio carriera che guadagna circa 1200 euro netti al mese si vedrà portare via, nel corso della sua carriera, circa 7500 euro l’anno, ovvero perderà il 33% del suo stipendio effettivo. Un professore ordinario con un’anzianità elevata e che guadagna fino a 106 mila euro l’anno avrà, invece, un taglio stipendiale di circa il 10 per cento.

Ma il meccanismo del congelamento stipendiale attivato da Tremonti, un vero e proprio Robin Hood alla rovescia, in realtà è emblematico del modo in cui questo governo ha deciso di affrontare i problemi dell’Università. Si tratta di una cifra “stilistica” che accompagna tutti i principali passaggi della Riforma. Infatti, propagandata come legge anti-baroni, la legge Gelmini in realtà si accanisce esclusivamente sugli anelli più deboli della catena (ricercatori e precari), aumentando a dismisura il potere dei più forti (professori ordinari e rettori). Non è casuale che molti ordinari e quasi tutti i Rettori abbiano appoggiato la legge in tutti i modi, anche i meno ortodossi, esercitando durante tutto il 2010 pesanti intimidazioni contro i ricercatori in stato di agitazione.

Che l’Università pubblica italiana avesse bisogno di una scossa radicale era noto e fin troppo evidente. Il Paese avrebbe avuto bisogno di una vera riforma in grado di trasformare un mastodontico ammortizzatore sociale per studenti e docenti precari in un sistema realmente competitivo e in grado di selezionare la classe dirigente di oggi e di domani. E, soprattutto, in grado di competere con le altre Università straniere. Ciò che sembra essere stato realizzato, invece, è l’ennesima riforma “a costo zero” o meglio “a saldo negativo”, la cui unica finalità sembra essere quella di mascherare un gigantesco “taglio lineare”. Nessuna progettualità e nessuna prospettiva futura. Perfettamente in linea con l’approccio “pubblicitario” alla politica di una classe dirigente molto attenta al marketing dell’adesso, ma assolutamente disinteressata allo sviluppo del domani. Facciamo alcuni esempi.

Ricordiamo che il pensionamento di migliaia di docenti abbinato al blocco del turn over nei prossimi anni svuoterà l’Università del suo corpo docente. Si tratterà di un risparmio eccezionale per lo Stato, ma è bene che il Paese sappia che senza urgenti interventi ci sarà il collasso definitivo del sistema. Anche perché non si ripeterà il miracolo degli anni passati, quando i ricercatori, pagati per svolgere esclusivamente compiti di ricerca, hanno svolto compiti di “supplenza” volontaria e non retribuita nei corsi, sperando che questo potesse aprirgli la strada ad un avanzamento di carriera che invece oggi gli è stato definitivamente precluso. Ricordiamo che oggi circa il 40% della didattica complessiva prodotta nelle Università è svolta gratuiramente e impropriamente dai ricercatori. La legge ha tentato di “legalizzare” questo stato di cose prevedendo la docenza gratuita dei ricercatori per sopperire al vuoto che il pensionamento di massa dei professori creerà nei prossimi anni. Ma l’articolo, in seguito allo scoppio delle proteste, non è passato. Ora è previsto un riconoscimento economico, ma “nei limiti di bilancio” di Atenei già in bancarotta. Se i ricercatori manterranno la loro indisponibilità totale o parziale, come sembra, molti corsi dovranno chiudere, a prescindere dalla loro appetibilità o rilevanza scientifica.

Guido Nicolosi
Sociologo, ricercatore presso il DAPPSI della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Catania, insegna Sociologia della comunicazione, dei media e delle nuove tecnologie.

Sui concorsi, la Gelmini ha propagandato un nuovo meccanismo nazionale di selezione in grado di ridurre il potere dei baronati locali. Ma ha legiferato in direzione esattamente opposta. a) Le abilitazioni nazionali, infatti, non servono a nulla perché richiederanno comunque una “chiamata locale”. E, cosa ancora più grave, senza alcun meccanismo di valutazione oggettiva che la giustifichi: perché Tizio e non Caio, entrambi abilitati? Qualcuno sostiente, però, che un merito della legge sia quello di aver introdotto il meccanismo della tenure track americana. Ovvero, il ricercatore assunto a tempo determinato può essere riconfermato una sola volta per poi diventare automaticamente associato (se abilitato). In caso contrario, andrebbe a casa. Il meccanismo è corretto, ma se non opportunamente finanziato, rischia di lasciare a casa migliaia di ricercatori per motivi economici e non meritocratici, come sarebbe giusto che fosse.
La norma anti-parentopoli licenziata dal Parlamento, poi, è una delle tante barzellette governative a cui siamo stati abituati in questi tempi. Prevede che il figlio del professore non possa essere chiamato nello stesso dipartimento del padre, ma nel dipartimento del suo collega dello stesso Ateneo, sì. Basterà, cioè, spostarsi una porta più in là, magari nello stesso corridoio. Che dire poi del finanziamento delle Università in base alla produttività scientifica? Avrebbe dovuto essere la chiave di volta dell’impianto liberale della riforma. Ancora una volta, si è trattato di uno slogan svuotato di significato. b) Solo il 7 per cento dei finanziamenti sarà effettivamente erogato in base ad una valutazione meritocratica.

Che sia chiaro, non intendo sostenere che l’unico problema dell’Università italiana sia quello dei finanziamenti. Aumentare il finanziamento di un sistema che utilizza male le sue risorse significa certamente legittimarne la disfunzionalità con scarsi effetti sulla qualità. D’altronde, se è certamente vero che il nostro “sistema ricerca” è sottofinanziato, è anche vero che il grosso nodo rimane quello della drammatica carenza dei finanziamenti privati. Infatti, se compariamo gli investimenti pubblici in ricerca del nostro Paese (in rapporto al PIL) con quelli degli altri paesi europei (mi riferisco in particolare agli anni precedenti ai tagli draconiani di Tremonti) il divario si annulla in alcuni casi e si riduce parecchio in altri. Dunque, mancano finanziamenti, in particolare quelli privati, però non può essere nascosto il fatto che i soldi che ci sono vengono spesi malissimo.

Le ragioni della “latitanza” dei privati sono diverse, a partire da una specificità del tessuto imprenditoriale italiano caratterizzato prevalentemente da piccole e medie imprese, poco propense a innovare. La ricerca, infatti, costa e il ritorno non è mai certo, specie del breve periodo. Le piccole aziende spesso non hanno la forza economica necessaria per sobbarcarsi questo rischio. Ma dobbiamo anche confrontarci con un ritardo culturale della borghesia imprenditrice italiana (il caso FIAT è esemplare). Si fa fatica a comprendere che la ricerca ha una ricaduta economica fondamentale nella società della conoscenza. In Italia, la bilancia dei pagamenti nel campo della conoscenza è in netto disavanzo. Importiamo molta più conoscenza di quella che riusciamo ad esportare (brevetti, tecnologie, ecc.). Inoltre, spendiamo molto per formare ottimi ricercatori che poi vanno all’estero a produrre beni che saremo costretti ad importare. Un sistema folle. All’interno del sistema ricerca, invece, i soldi sono spesi male perché vi è una scarsa “tensione” meritocratica e selettiva. Il punto è che la legge Gelmini non fa nulla per risolvere entrambi questi problemi, anzi li esaspera: riduce i finanziamenti pubblici e non incentiva quelli privati; introduce a parole il merito, ma nei fatti disincentiva la competizione perché frustra le aspettative di carriera e di crescita economica dei ricercatori a vantaggio del consolidamento del potere dei baroni.

Una riforma realmente liberale, come prima cosa, avrebbe abolito il valore legale del titolo di studio. Questo avrebbe costretto le Università a competere tra loro per accaparrarsi i migliori studenti e docenti/ricercatori offrendo migliori servizi e incentivi. E non solo le Università pubbliche ne avrebbero tratto giovamento. La concorrenza fa bene anche alle private che, in Italia, invece di competere sul mercato preferiscono chiedere, immediatamente accontentate, più finanziamenti allo Stato. Vorrei ricordare, infatti, che le performance sul piano della qualità e quantità della ricerca delle Università private italiane sono spesso disastrose. Una riforma realmente liberale avrebbe previsto l’abolizione del meccanismo perverso e inutile del concorso pubblico, abbinando questo provvedimento ad un più spiccato meccanismo di valorizzazione finanziaria delle performance dei dipartimenti. Io assumo chi voglio, ma se prendo brocchi e il dipartimento non produce, mi assumo la responsabilità della sua chiusura. E avrebbe previsto una liberalizzazione dei percorsi di carriera e delle premialità interne. Inoltre, una riforma veramente liberale avrebbe dovuto, in modo correlato, abolire le caste degli ordini professionali che rappresentano un inacettabile tappo per l’inserimento dei giovani neo-laureati. Infine, avrebbe realizzato una maggiore separazione tra le strutture di ricerca e quelle prevalentemente orientate alla formazione. Non è possibile far fare tutto a tutti.

C’è poi la spinosa questione delle tasse. Aumentare il finanziamento privato dell’Università pubblica passa anche dall’innalzamento corposo delle tasse d’iscrizione. Ma l’aumento delle tasse non deve in nessun modo essere penalizzante per i meno abbienti. Deve essere previsto un piano straordinario di finanziamento di un nuovo sistema dei prestiti agli studenti e delle borse. Nei paesi anglosassoni, lo studente ottiene un prestito che restituirà nel tempo, con interessi agevolati, con una piccola trattenuta in busta paga, solo se la laurea lo aiuterà a trovare un lavoro con un livello retributivo significativo. Minore il livello retributivo, minore la restituzione. Così si preleva “a valle” del sistema, facendo pagare di più chi diventa più ricco, riducendo le discriminazioni sociali “a monte”. Inoltre, questo meccanismo incentiva le Università a migliorare le performance nella collocazione dei laureati e sprona gli studenti ad accelerare gli studi (più stanno e più pagano). La Gelmini, invece, porterà inevitabilmente ad un aumento delle tasse di iscrizione, ma ha azzerato le borse per gli studenti in attesa di un futuro migliore. Francamente, non si capisce quale se al governo rimarrà lei.

GUIDO NICOLOSI La legge Gelmini sull’Università: riforma mancataultima modifica: 2011-04-13T16:17:33+02:00da mangano1
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