FRANCESCO PULLIA Ceronetti e Cioran, un unico sguardo impietoso sulla “moribonda risacca” dell’umanità

da NOTIZIE RADICALI

FRANCESCO PULLIA
Ceronetti e Cioran, un unico sguardo impietoso sulla “moribonda risacca” dell’umanità

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29-07-2011
Solo Ceronetti, e chi altri se non lui?, ripercorrendo il Novecento, poteva mettere in relazione il ritrovamento dei rotoli di Qumran con il caso Roswell. Differenti vagiti di luce s’intersecano nel lontano 1947: emanano dalle giare in terracotta dove, avvolti nel lino, per quasi due millenni sono rimasti celati documenti, scritti per lo più su pergamene, che abbracciano un arco di tempo che va dal III secolo a. C. al I secolo d. C.; scaturiscono, a raggi intermittenti, dalla sperduta cittadina del New Messico dove nel luglio 1947 si sarebbe schiantato un Ufo e sarebbero stati recuperati cadaveri di alieni.

Due avvenimenti tra loro distanti, apparentemente non comunicanti che, invece, a loro modo, evocano un “evento nascosto”, “qualcosa che in fondo agli abissi nasconda la presenza del Dio che salva e riconosca i suoi e li chiami…”

Ecco, è proprio questo “evento nascosto”, riscontrabile ma, appunto, non esplicitato nel Novecento, che svolge la parte del convitato di pietra in “Ti saluto mio secolo crudele” (Einaudi), libro con cui Guido Ceronetti, seguendo una traiettoria non tanto diacronica quanto lucidamente (meta)esistenziale, ha voluto volgersi, tra l’ironico e il trasognato, l’evocativo e l’apocalittico, agli ultimi cent’anni di un pianeta che sembra provare piacere a danzare vertiginosamente sull’orlo di un baratro.

E così ci avventuriamo à rebours in un itinerario che, con impeto straniante, parte dall’inabissamento del Titanic per concludersi nella “moribonda risacca” dell’undici settembre, passando per una miriade di fatti che si accalcano e accavallano apparentemente senza alcun legame tra loro, in realtà segnati come da un processo erosivo attestante il declino dell’umanità.

D’altronde, qual è il volto che meglio potrebbe contraddistinguere il secolo da poco andato? Quello del famigerato Vladimir Ilyich Ulyanov, alias Lenin, “l’inviato della Tenebra, fondatore dell’universo concentrazionario”, o dell’enigmatico Rudolf Hess?
Forse qualcuno di quelli immortalati, nelle sue “indigestioni di tragico”, dal fotografo Don McCullin? Quello di Marylin, sulla cui fine regna ancora l’indecifrato, del paranoico e allucinato Charles Manson, di Erika e Omar?

E, ancora, che dire di un secolo che con gli allevamenti intensivi e la spropositata diffusione del consumo di carne ha visto l’intensificarsi e il dilagare delle stesse strutture di morte servite a soddisfare la vampiresca sete di sangue del nazismo e del comunismo?

Certo, come annota Ceronetti, la necrofagia può avere più charme perché in essa prevalgano le pulsioni di morte insite nel genere umano e, tuttavia, un salto in avanti, un cambiamento radicale è possibile e necessario, come confermano le interessanti valutazioni, riportate nel libro, di Rüdiger Dahlke: “anche solo la vista di vagoni carichi di creature sofferenti dovrebbe lasciare qualche traccia in un uomo sensibile. Chi sa questo e guarda anche solo per una volta gli occhi di un vitello dietro le sbarre, si sentirà –specie se ne è corresponsabile attraverso le sue abitudini alimentari- consciamente o inconsciamente colpevole, offeso nella sua umanità. Alla lunga, però, un comportamento che intuisce l’ingiustizia ma non fa nulla contro di essa rende malati, e questa indifferenza nei confronti delle creature a noi affidate e della loro sofferenza è forse una malattia peggiore del morbo della mucca pazza, perché più diffusa”. E come giudicare la geofagia, cioè l’avida ingordigia di terra e di spazio, di sette miliardi di esseri umani responsabili di un mondo invivibile per noi e per le altre specie?

E, allora, ecco che come un macigno torna, con tutta la sua gravità, quanto ebbe a scrivere Guido Piovene: “il mondo tanto più finisce quanto se ne accorge di meno. Si svuota, si devitalizza, cessa di capirsi, entra in coma. Un corpaccio decerebrato. Muore senza dolore, in modo anemico, leucemico, senza averne coscienza. Muore senza visioni, finite le utopie. In un’assoluta mancanza di visione, al margine della cecità mentale. Uno degli aspetti più da fine di questa fine è che forse non sarà intera, lascerà ancora indietro qualche piccola scoria. Purtroppo c’è sempre un Noè”.

Ceronetti ha buon gioco a mescolare insieme alle sue riflessioni quelle, altrettanto amare, di autori significativi del Novecento, come Jung (“nell’anima dell’uomo moderno colto non rimane più nulla, eccetto un gran buco nero. E questo mi ha imposto di elaborare una psicologia la cui prima cura dev’essere di riaprire l’accesso all’esperienza spiritale”), Merleau-Ponty (“In questo mondo in cui la negazione e le passioni lugubri tengono il luogo delle certezze, ciò che soprattutto non si cerca è di vedere, ed è allora che la filosofia, poiché chiede di vedere, passa per empietà”), Castoriadis (“La tecno-burocrazia attuale, economica come scientifica, è incapace di ragionamenti ponderati (la frònesis aristotelica) in quanto non esiste e non è spinta che in vista del delirio dell’espansione illimitata”).

Insieme a lui, viene da chiedersi chi ci salverà in e da un mondo sovrappopolato in cui, a dispetto di milioni e milioni di condannati a sterminio per fame e per sete, aumentano a dismisura gli obesi, quelli dal colon disturbato o dall’alito fetido (causato, secondo Ceronetti, “da ristagni di materie psichiche annidate dovunque”).

La risposta l’autore sembra darcela sarcasticamente tra le righe: forse la capacità di dialogare con altri pianeti, come avrebbe voluto Nikola Tesla, o, più semplicemente, l’intelligenza (e l’umiltà) di saperci guardare nel profondo per arginare la folle corsa verso il nulla.

Come dire che solo dalla consapevolezza del tragico, sia di quello compiuto e presente che di quello incombente, può nascere la capacità di intravedere cieli nuovi, terre nuove. Parli di Ceronetti e, inevitabilmente, non puoi non andare a un altro grande e implacabile testimone della decomposizione dell’uomo (e dell’umanesimo) nella nostra epoca, vale a dire a Emil Mihai Cioran di cui ricorre il centenario delle nascita (Răşinari, 8 aprile 1911 – Parigi, 20 giugno 1995).

Francesco Pullia

Nato a Terni il 4 novembre 1956, componente della Direzione nazionale di Radicali Italiani, è radicale da quando aveva quattordici anni. Vegetariano, animalista, appassionato gattofilo, è militante nonviolento, capitiniano.

Dell’autore, romeno di nascita ma, come spesso teneva a rimarcare, apolide, la casa editrice Adelphi ci propone “Taccuino di Talamanca”, detto così perché scritto nel 1966 a Talamanca, nell’isola di Ibiza.

Chi conosce Cioran vi ritroverà le caratteristiche del suo stile e del pensiero, le folgorazioni e le prostrazioni, il denudamento e la distruzione dei feticci dominanti nella società, la tensione verso un filosofare spinto all’eccesso ostinatamente ostile ad ogni forma di facile scappatoia consolatoria. Ed ecco, dunque, Cioran l’insonne, Cioran l’implacabile, Cioran che irride e schernisce le accomodanti illusioni su cui ama reggersi (e proliferare) l’umanità, Cioran gnostico, convinto, con Basilide, che l’azzeramento della (falsa) conoscenza sia autentico segno di redenzione, Cioran che si sente estraneo al mondo e, nello stesso tempo, osservando, di notte, pini, rocce, onde visitate dalla luna, avverte d’essere “inchiodato a questo bell’universo maledetto”.

Da un lato stigmatizza l’assolutismo ideologico e l’infantilismo rivoluzionario (“Ogni rivoluzione è datata, perché si fa con idee passate, con sopravvivenze ideologiche (…) L’uomo d’azione, e in particolare il rivoluzionario, è sempre in ritardo rispetto al cammino dello spirito”), dall’altro s’inerpica verso sentieri arditi cercando in se stessi la chiave per interpretare lo squadernamento del mondo (“Non ricerche: ma cercare prima di tutto noi stessi”, “Acquistiamo in coscienza ciò che perdiamo in esistenza”).

Rispetto a Ceronetti sono diversi gli accenti ma non i toni. Ciò che, in fin dei conti, trapela è la comune denuncia dell’assenza di pietà (per Cioran non ce n’è mai abbastanza) in un mondo che ha finito per confondere e svuotare i propri stessi connotati.
 

FRANCESCO PULLIA Ceronetti e Cioran, un unico sguardo impietoso sulla “moribonda risacca” dell’umanitàultima modifica: 2011-08-02T21:29:29+02:00da mangano1
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