Aldo Giannuli,Il fallimento americano

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Il fallimento americano
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Obama ha evitato di misura il default, ma non ha avuto il tempo di brindare: le borse sono entrate lo stesso in fibrillazione e Standard & Poor’s ha declassato il debito americano dalle tre A a due A+.
Naturalmente, ne è seguita una sarabanda di attacchi all’agenzia di rating che si sarebbe sbagliata, come dimostrerebbe il fatto che le altre due hanno confermato le tre A. Ed in effetti, S&P si è sbagliata, ma non perchè avrebbe fatto mal i calcoli per circa 2.000 miliardi di dollari, ma, al contrario, perchè la sua valutazione è troppo generosa. Diciamoci la verità, se non si trattasse degli Usa, ma di un qualsiasi altro paese, con quel tasso di indebitamento governativo e quel tasso di debito aggregato, con quel deficit statale e quella scarsa flessibilità della spesa pubblica, ecc. le agenzie di rating, si e no, concederebbero CC-.
Obama può anche dire che gli Usa meritano la quarta A, il fatto è che le borse non gli credono. E’ vero che gli Usa hanno ancora un sistema economico gigantesco e che hanno un assoluto predominio tecnologico, ma hanno accumulato un debito spropositato e sono al centro del sistema finanziario che sta per crollare.

In realtà, noi siamo di fronte ad un paese tecnicamente fallito, cosa che non diciamo per timore di un disastroso effetto domino.
Cerchiamo di spiegare cose è un default, -cioè la dichiarazione di incapacità di far fronte ai propri impegni finanziari- con le conseguenze che ne derivano. Nel caso di una azienda, una dichiarazione del genere ha due possibili sviluppi: o si concorda con i creditori un ristrutturazione del debito, delle sue scadenze ed interessi, oppure si portano i libri contabili in tribunale e si avvia la procedura fallimentare.
Ma uno Stato non è una azienda e non ci sono tribunali presso i quali avviare il fallimento. Però ci sono i mercati che puniscono lo Stato non concedendogli più credito e “vendicandosi” sulla sua moneta il cui valore precipita: se prima bastavano 100 soldi di quello stato per acquistare un barile di petrolio, ora che ne vogliono 700 e domani ce ne vorranno 1.200 e pronta cassa, senza credito. Facile comprendere le conseguenze. Nel caso degli Stati Uniti, però ci sono fattori che rendono la situazione molto più complicata: il dollaro è ancora la moneta di riferimento internazionale (anche se è iniziata da tre anni una “fuga dal dollaro” che sta accelerando), gli Usa sono il principale mercato di sbocco sia per Europei che per Cinesi, Giapponesi e Brasiliani, le banche di tutto il mondo –comprese molte banche centrali- hanno “nella pancia” quintali di bond americani, l’esercito americano –piaccia o no- è il principale asse di sostegno dell’ordine mondiale esistente. Per cui, una dichiarazione di default americano non avrebbe le stesse conseguenze dell’analogo greco o portoghese: se i mercati punissero gli Usa e la sua moneta, potrebbe verificarsi una vampata inflazionistica senza precedenti, sino a quando non si ricostruisca un nuovo ordine monetario mondiale, quasi tutti i paesi vedrebbero paurosamente calare le proprie esportazioni, le banche cadrebbero come birilli una addosso all’altra, si aprirebbero situazioni di crisi al buio determinate dal ritiro militare americano con effetti imprevedibili anche in sede economica.

Roba che la crisi del 1929 sarebbe una bazzecola al confronto.
Di qui la grande cautela di tutti. Ma sino a quando può reggere questo gioco? Gli Usa sono già all’insolvenza tecnica: con quel livello di indebitamento, ammesso e non concesso che, riducendo le spese, aumentando il gettito fiscale, vendendo parte del patrimonio demaniale ecc., riescano ad azzerare il deficit di bilancio ed a trovare un 3-4% in più di gettito, per estinguere totalmente il loro debito gli ci vorrebbero fra i 40 ed i 60 anni, troppo per essere un tempo economicamente utile e prevedibile. E senza calcolare che resterebbe da ripianare il debito delle imprese e quello dei privati, per cui, se la pressione fiscale sale oltre un certo limite questo porta ad un ulteriore indebitamento delle prime e dei secondi, se, per alleggerire la loro situazione, la pressione fiscale scende sotto una certa soglia, l’efficacia della manovra di restituzione del debito sfuma.

Dunque, la restituzione totale del debito è fuori discussione, ma questo non è neppure necessario: il default si determina solo quando un soggetto non è in grado di far fronte alle sue scadenze, per cui, siccome non è probabile che tutti i creditori decidano contemporaneamente di non rinnovare i titoli in scadenza e una parte di essi è in mano a soggetti istituzionalmente obbligati a non farlo, va da sè che nessuno pensa che il debito Usa, greco, portoghese o di qualunque Stato debba essere estinto del tutto. Va benissimo se il debito pubblico riesce a tenersi in limiti inferiori al 60% del Pil (che significa, grosso modo, 2-3 anni di entrate fiscali) rinnovandosi via via: la “virtuosa” Germania è a quota 73% sul Pil e sembra un fulgido esempio di “compagnia della lesina”.

Ma prendiamo in considerazione una ipotesi meno teorica. E’ del tutto plausibile che la manovra di rientro varata da Obama (riduzione del deficit per 2.500 miliardi in 10 anni) non darà i suoi frutti immediatamente ed il disavanzo americano continuerà a crescere ancora per qualche anno, gravato, per di più, dall’aumento degli interessi causato anche dal suo declassamento. Dunque, è realistico attendersi che dopo le elezioni si porrà il problema di un nuovo innalzamento del tetto del debito, ma, per ora non parliamone.
Nel frattempo, andranno in scadenza una consistente parte dei titoli americani: 1.800 miliardi nel 2012, 1.400 nl 2013 e 1.400 nel 2014: totale 4.600 miliardi di dollari.

Immaginiamo che si determini questa situazione: molti fondi pensione, avendo per statuto l’obbligo di investire solo in titoli muniti della tripla A, alla scadenza, non rinnovano i propri bond. I cinesi, irritati per l’atteggiamento americano fanno la stessa cosa anche se, forse, solo in parte. Altrettanto i giapponesi, a causa del disastro di Fukushima e i fondi comuni arabi per via delle rivolte interne, della situazione libica ecc. Inoltre, è normale che una parte degli investitori minori
pur immaginando che una parte di investitori possa rivelare i titoli abbandonati da Cinesi, giapponesi, arabi, fondi pensione ecc, immaginiamo che, per una congiuntura sfavorevole, restino non rinnovati bond per 3.000 miliardi dei 4.600 iniziali (e senza tener conto di eventuali nuove emissioni): sarebbero in grado gli Usa di rimborsare quella cifra in tre anni? Sembra molto difficile, a meno che la Fed non li acquisti emettendo un pari valore in dollari. Ma, a quel punto, una svalutazione nell’ordine del 20% sarebbe praticamente inevitabile: a quanto salirebbe il costo delle materie prima a cominciare dal petrolio? Sarebbe ancora possibile tenere artificiosamente il rating dei titoli Usa ad AA+? Il dollaro potrebbe essere ancora la moneta di riferimento internazionale? Soprattutto: in presenza di un trend di quel genere, quanti altri investitori sarebbero indotti a ritirarsi dai titoli Usa? E, per trattenere gli investitori, a quali livelli dovrebbero salire gli interessi?

Si badi che quello che abbiamo descritto è uno scenario particolarmente sfavorevole ma non impossibile e d’ altro canto, se queste dinamiche dovessero svilupparsi in quattro anni anzicchè tre, non cambierebbe molto.

Dunque, gli Usa, già oggi non hanno molti margini di manovra e basta davvero poco per spalancare il baratro sotto i piedi loro e, di riflesso, di tutti quelli che gli hanno dato credito illimitato. I maggiori responsabili della situazione sono loro, non c’è dubbio, ma subito dopo, nell’ordine, vengono cinesi, giapponesi, europei, arabi.
Capiamoci: se c’è un eccesso di debito vuol dire che c’è un eccesso di credito. Il senso comune pensa che la propensione al debito sia un cattivo costume, mentre la propensione al risparmio sia un costume virtuoso. Ma non è affatto così: se c’è uno che ha fatto troppi debiti è perchè qualche altro gli ha dato troppo credito, pensando si farci l’affare: tutti due hanno sbagliato.

Oggi i cinesi fanno i virtuosi e dicono agli americani che si sono comportati da “drogati” del credito facile e li invitano a rimediare (S24 7.8.11 p 2) ma sembrano quel pusher che, avendo fatto troppo credito ad un cliente, gli dice “drogato vai a lavorare!”. La cosa avrebbe un vago sentore comico se non si trattasse di un disastro.
I cinesi sapevano perfettamente cosa stavano facendo e non hanno comprato i titoli americani per beneficenza, ma perchè, in questo modo, finanziavano il loro principale mercato di sbocco, quello che gli ha consentito la crescita registrata nel decennio scorso. Ora il meccanismo non funziona più ed i cinesi hanno ottenuto tutto quello che potevano ottenere da esso: capolinea.

Dopo di che si capisce che il gioco di far finta che le cose non vanno poi così male e che, in fondo, due A sono pur sempre un bel piazzamento e che presto gli Usa riconquisteranno la terza A, potrà andare ancora avanti, ma non per molto: le stive del Titanic si stanno già riempiendo d’acqua.

Aldo Giannuli,Il fallimento americanoultima modifica: 2011-08-10T15:12:39+02:00da mangano1
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