Imre Kertész ,Dimenticare Auschwitz?

Imre Kertész

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Dimenticare Auschwitz?

 
La grammatica dell’orrore declinata senza retorica ma con la logica straniata di un ragazzo che non riesce a spiegarsi  in nessun modo determinate cose e dunque aspetta che prima o poi quell’incubo finisca: dal momento in cui viene arrestato su un autobus a Budapest, a quindici anni, viene poi caricato su un carro merci, viene scaricato in un campo “di lavoro” che è Auschwitz, insaccato in una divisa da prigioniero, mentre crede, si illude, ma non per molto, di contribuire col suo duro lavoro alla crescita della grande Germania. Poi, quando Gyurka comincia a considerare “normale” che tanti, a caso, spariscano nelle “docce” dei campi (basta essere nella fila sbagliata) quando, guardando i nazisti, ne ammira la “bellezza”, contrapposta alla bruttezza mostruosa dei prigionieri, quando l’abitudine all’abbrutimento fa sparire ogni altro sentimento che non sia per la misera zuppa del campo, è quello il segno della perdita dell’umanità. Tutto raccontato passo per passo, senza fretta, ma senza sosta, in Essere senza destino, pubblicato in Italia da Feltrinelli, di Imre Kertész, nato a Budapest nel 1929 da famiglia ebraica e deportato a quindici anni, nel 1944, ad Auschwitz. L’anno dopo viene liberato a Buchenwald, ma ancora non ha chiuso i conti con l’orrore; dovrà infatti vedersela con la stupida e paralizzante crudeltà del totalitarismo comunista del suo Paese. Nelle ultime pagine di Essere senza destino Gyurka, la voce narrante, racconta di essere ritornato nella sua città da sopravvissuto: un ritorno straniato dove la gente sembra non rendersi conto di cosa significhi sopravvivere a un campo di sterminio. Nonostante le tue evidenti condizioni, c’è chi ti chiede il biglietto sotto gli occhi  di una signora scandalizzata dal tuo aspetto di accattone scheletrito, c’è il giornalista curioso di sapere se hai visto le camere a gas ed è pronto a prendere appunti, c’è ancora chi è morbosamente curioso degli orrori del campo e chi da fuori crede di capire cosa sia stato e lo chiama inferno. E nessuno che capisca che dentro il campo l’unica esigenza era di sopravvivere, proprio come fuori, e che ogni passo, uno dopo l’altro, necessario e “logico” era la conseguenza di un destino che non era il proprio e che, tuttavia, doveva essere vissuto. Non esiste assurdità, conclude Gyurka, che non possa essere vissuta con naturalezza, anche quella della “felicità” dei campi di concentramento, provata per un piccolissimo, fuggevole istante, lì tra i camini, nel capire di non dover fare la doccia per quella volta. Kertész, oggi ottantenne, ha vinto nel 2002 il Premio Nobel per la Letteratura. Ha scritto, tra gli altri, Fiasco, Liquidazione, Kaddish per il bambino non nato, Il secolo infelice: in tutti è chiara la concezione secondo la quale l’Olocausto è la punta estrema della progressiva decadenza dell’Occidente che giunge ad annullare il valore della persona umana. Kertész ha ricevuto a Torino il premio Grinzane Lettura.
In tutti i suoi libri è presente l’orrore di Auschwitz. Impossibile dimenticare?
 Tutte le generazioni hanno dovuto o dovranno fare i conti con Auschwitz. Auschwitz non riguarda solo gli ebrei o la Germania, perché è un fatto che ha interessato non solo Germania e popolo ebraico, ma tutta l’Europa cristiana. Quando si dice Auschwitz si devono tenere presenti i valori che nell’Europa cristiana abbiamo saputo costruire e abbiamo poi distrutto. Non si può e non si deve dimenticare, proprio per ricostruire i valori fondanti dell’Europa. I tedeschi, dopo la prima generazione che aveva avuto un rapporto diretto con i fatti, ha fatto di tutto per non dimenticare. Sia i giornali che il governo che la cultura fa di tutto per prestare attenzione a tutto ciò che riguarda l’Olocausto, la Germania non si sottrae alla responsabilità storica.
Lei vive da diversi anni, dopo il Nobel, a Berlino. Perché questa scelta e come ci vive?
Abito a Berlino da sei anni, anche se sono spesso, a Budapest, in Ungheria, dove possiedo casa. Ma a Berlino mi sento più libero. Sì, mi è stato chiesto spesso perché io, ebreo, abiti a Berlino. Come si vede spesso nei film avviene che molte persone ebree tornano in Germania. Io stesso ho scritto un articolo intitolato “Perché Berlino?”. Il perché è che Berlino è un luogo dove l’Olocausto è stato trattato in maniera scientifica, essendovi anche i più grandi archivi. Berlino è oggi una città dove non vi è più la generazione nazionalsocialista, è una città liberale con molte culture, come New York. Berlino è una città che si è fatta carico della responsabilità tedesca, come ha detto il cancelliere Merkel. In Germania, ho un pubblico vasto e partecipe; tante persone mi scrivono e mi dicono di aver capito con i miei libri cose che prima non capivano. Berlino è la città che mi ha fatto diventare autore, mentre in Ungheria c’è sempre qualcuno contro e non capisco perché. Berlino è una città che permette a un autore di dire, di ispirarsi, e inoltre la cultura tedesca è stata quella veicolare, da sempre è una lingua della cultura. E’ molto più facile per gli autori dell’est essere tradotti in tedesco, pensiamo che noi Kierkegaard l’abbiamo conosciuto perché tedesco. A Berlino tutto è di prima mano, è europeo, mentre a Budapest è tutto di seconda mano.
Quanto c’è di politico e quanto di antisemita nell’attacco a Israele? E’ credibile secondo lei un paragone tra Gaza e lager?
Ho scritto alcune cose al riguardo, come Jerusalem, Jerusalem, dove ho espresso le mie opinioni. Io non sono israeliano, ma capisco che Israele ha un problema molto grave, la sopravvivenza. So che qualcuno ha detto che Israele dovrebbe sprofondare nel mare, ma a parte le frasi ad effetto, sono un testimone del tempo e ho vissuto cosa possa essere il pericolo di morte per un intero paese. Certo, bisogna pensare ad una via d’uscita, mentre altri fenomeni come il terrorismo ed il fondamentalismo suscitano grande preoccupazione. Il terrore è nato in Europa e in realtà iggi le guerre non sono di nazione contro nazione ma di mentalità contro mentalità.
Due parole ricorrenti nella sua opera sono “destino” ed “esilio”. In che rapporto stanno?
Nei miei libri ho usato il termine destino soprattutto come mancanza di destino che è quella in cui si vengono a trovare delle persone, dei gruppi, una comunità quando vivono in condizioni aliene, dipendenti dalle cattive volontà di altri. E l’esilio è invece la liberazione dalla costrizione, apre la strada della libertà. Senza l’esilio chi è senza destino non potrebbe neanche scrivere dei valori perduti.
Quale è stata la sua reazione di fronte alle affermazioni del vescovo lefebvriano Williamson che l’Olocausto non c’è stato?
C’è stato.
 
 

Imre Kertész ,Dimenticare Auschwitz?ultima modifica: 2012-03-14T14:34:09+01:00da mangano1
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