Barbara Spinelli: Monti, europeista riluttante

VENERDÌ 28 DICEMBRE 2012
Barbara Spinelli: Monti, europeista riluttante

Unknown.jpeg

In estrema sintesi, si torna sempre alle idee contrapposte di un’ Europa dei popoli (luminosa intuizione mazziniana e poi azionista) o di un’Europa delle banche. Il fatto è che per essere davvero radicali in economia occorre prima di tutto essere degli umanisti. Lo aveva già chiarito un giovane Marx irriducibile ad ogni costrizione ideologica: “Siamo radicali perché cerchiamo in ogni occasione di andare alla radice delle cose. E la radice delle cose per noi sono gli uomini”.

Barbara Spinelli

Moderatamente europeo

Ancora non è chiaro cosa significhi, nelle parole di Monti, il centrismo radicale proposto come Agenda di una futura unità nazionale: un ordine nuovo, addirittura, dove le classiche divisioni fra destra e sinistra sfumerebbero. Non è chiaro cosa significhi in particolare per l’Europa: presentata come suo punto più forte. Punto forte, ma stranamente sfuggente.

Centrista, sì, ma radicale non tanto. Lo stesso titolo dell’Agenda tradisce l’assenza di un pensiero che si prefigga di curare alle radici i mali presenti. “Cambiare l’Italia, riformare l’Europa” promette cambi drastici negli Stati ma in Europa una diplomazia graduale, senza voli alti, senza i radicalismi prospettati in patria. Se Monti avesse voluto davvero volare alto, ed esser veramente progressista come annunciato domenica in conferenza stampa, avrebbe dato all’Agenda un titolo meno anfibio, più trascinante: non riformare, ma “cambiare l’Europa per cambiare l’Italia”.

La formula prescelta è in profonda contraddizione con l’analisi cupa di una crisi che ha spinto e spinge l’Italia e tanti paesi su quello che troppo frequentemente, troppo ossessivamente, vien chiamato orlo del baratro. Una crisi che continua a esser vista come somma di politiche nazionali indisciplinate; mai come crisi – bivio necessario, presa di coscienza autocritica – del sistema Europa, moneta compresa. È come se contemplando un mosaico l’occhio fissasse un unico tassello, senza vedere l’insieme del disegno. I problemi che abbiamo, questo dice l’Agenda, ciascuno ha da risolverli a casa dentro un contenitore – l’Unione – che essenzialmente funziona e al massimo va corretto qui e lì.

L’Agenda propone qualcosa di ardito, è vero: il prossimo Parlamento europeo dovrà avere un “ruolo costituente”. Dunque c’è del guasto, nel Trattato di Lisbona: siamo sprovvisti di una Costituzione sovranazionale. Ma resta nella nebbia quel che debba essere la Costituzione a venire, e drammatica è l’assenza di analisi sul perché il Trattato vigente non sia all’altezza delle odierne difficoltà e del divario apertosi fra Nord e Sud Europa. Più precisamente, manca il riconoscimento che stiamo vivendo una crisi economica, politica, sociale dell’Unione intera (una crisi sistemica), che non si supera limitandosi a far bene, ciascuno per proprio conto, “i compiti a casa” come prescrive l’ortodossia tedesca. Nella storia americana, Alexander Hamilton ebbe a un certo punto questa presa di coscienza: decise che il potere sovranazionale si sarebbe fatto carico dei singoli debiti, e fece nascere dalla Confederazione di Stati semi-sovrani una Federazione, dotata di risorse tali da garantire, solidalmente, una più vera unità. È il momento Hamilton – non centrista-moderato ma radicale – che non si scorge né a Bruxelles, né nell’Agenda Monti.

Unici impegni concreti sono il pareggio di bilancio e la riduzione del debito pubblico in Italia: dunque la nuda applicazione del Fiscal compact, del Patto di bilancio del marzo 2012, corredato fortunatamente da un reddito di sostentamento minimo e forme di patrimoniale. Certo, fare l’Europa è anche questo. Certo: è giunta l’ora di dire che la crescita di ieri non tornerà tale e quale ma dovrà mutare, in un’economia-mondo non più dominata dai vecchi paesi industrializzati. Quel che si nasconde, tuttavia, è che non esistono solo due linee: da una parte Monti, dall’altra i populismi antieuropei. Esistono due europeismi: quello conservatore dell’Agenda, e quello di chi vuol rifondare l’Unione, e perfino rivoluzionarla. Tra i sostenitori di tale linea ci sono i federalisti, i Verdi tedeschi che chiedono gli Stati Uniti d’Europa, molti parlamentari europei. Ma ci sono anche quelle sinistre (il primo fu Papandreou inGrecia, e il Syriza di Tsipras dice cose simili) secondo le quali le austerità sono socialmente sostenibili a condizione che l’Europa cambi volto drasticamente, e divenga il sovrano garante di un’unità federale, decisa a schivare il destino centrifugo della Confederazione jugoslava.

I fautori della Federazione (parola evitata da Monti) non si concentrano solo sulle istituzioni. Hanno uno sguardo ben diverso sulla crisi, su come cambia la vita dei cittadini. Hanno una visione più tragica, meno liberista-tecnocratica: non saranno il Fiscal compact e il rigore a sormontare i mali dell’ineguaglianza, della povertà, della disoccupazione, ma una crescita ripensata da capo, e la consapevolezza che le diseguaglianze crescenti sono la stoffa della crisi. L’Agenda è fedele al più ortodosso liberismo: tutto viene ancora una volta affidato al mercato, e l’assunto da cui si parte è che finanze sane vuol dire crescita, occupazione, Europa forte: non subito forse, ma di sicuro. Immutato, si ripete il vizio d’origine dell’Euro. Quanto all’Italia, ci si limita a dire che il rispetto riguadagnato in Europa dipenderà dalla sua credibilità, dalla sua capacità di convincere gli altri partner. Convincere di che? Non lo si dice.

L’idea alternativa a quella di Monti è di suddividere i compiti, visto che gli Stati, impoveriti, non possono stimolare sviluppo e uguaglianza. Se a questi tocca stringere la cinghia, che sia l’Unione a assumersi il compito di riavviare la crescita, di predisporre il New Deal concepito da Roosevelt per fronteggiare la crisi degli anni ’30, o la Great Society proposta negli anni ’60 da Johnson “per eliminare povertà e ingiustizia razziale”. L’idea di un New Deal europeo circola dall’inizio della crisi greca, ma non sembra attrarre Monti. È un progetto preciso: aumentare le risorse del bilancio dell’Unione a sostegno di piani europei nella ricerca, nelle infrastrutture, nell’energia, nella tutela ambientale, nelle spese militari. Non mancano i calcoli, accurati, dei vasti risparmi ottenibili se le spese dei singoli Stati verranno accomunate.

Per tale svolta occorre tuttavia che il bilancio dell’Unione non sia striminzito come oggi (l’1% del pil. Nel bilancio Usa la quota è del 23). Che aumenti alla grande, grazie all’istituzione di due tasse, trasferite direttamente dal contribuente alle casse dell’Unione: la tassa sulle transazioni finanziarie e quella sull’emissione di diossido di carbonio. La carbon tax (gettito previsto: 50 miliardi di euro) segnalerebbe finalmente la volontà di far fronte a un disastro climatico già in corso, non ipotetico. Cosa ne pensa Monti? Sappiamo che vuol tassare le transazioni finanziarie, ma gli eventuali introiti già sono accaparrati dal Tesoro nazionale.

Perché l’Agenda vola così basso? Perché Monti è europeo, ma moderatamente. Perché, scrive Marco D’Eramo nel suo Breve lessico dell’ideologia italiana, la moderazione del centrista “è quella che modera le altrui aspettative e l’altrui livello di vita. Modera la nostra fiducia nel futuro” (Moderato sarà lei, Marco Bascetta e Marco D’Eramo, Manifestolibri 2008). E perché la sua dottrina dell’union sacrée è la fuga patriottico-centrista dalle contrapposizioni anche aspre che sono il lievito della democrazia dell’alternanza.

L’unione sacra che Monti preconizza da anni idoleggia l’unanimità: proprio quel che sempre in Europa produce accordi minimalisti. Non è un inevitabile espediente (come nella Germania citata dal Premier) ma il finale e migliore dei mondi possibili. Di qui la sua ostilità alla divisione destra-sinistra: un’avversione che come oggetto ha la divisione stessa, la pacifica lotta fra idee alternative. È significativa l’assenza di due vocaboli, nell’Agenda. Manca la parola democrazia (tranne un riferimento alle primavere arabe e alle riforme europee “democraticamente decise e controllate”) e manca la laicità: separazione non meno cruciale in Italia.

Diceva Raymond Aron di Giscard d’Estaing, l’ispettore delle Finanze divenuto Presidente nel ’74: “Quest’uomo non sa che la storia è tragica”. Qualcosa di simile accade a Monti, e un esempio è il modo in cui pensa di risolvere la questione Vendola, espellendolo dall’union sacrée perché le sue idee “nobili in passato, sono perniciose oggi”. Quel che il Premier non sa, è che Vendola impersona la questione sociale che fa ritorno in Occidente, assieme alla questione dei diritti e di un’altra Europa. Quel che pare ignorare, è che pernicioso non è Vendola. È il malessere che egli denuncia. Della sua voce abbiamo massimo bisogno.

Non sono semplicemente idee, quelle bollate come perniciose. Sono il vissuto reale in Grecia, Italia, Spagna. Roosevelt lo capì: e aumentò ancor più le spese federali, investì enormemente sulla cultura, la scuola, la lotta alla povertà, l’assistenza sanitaria. Non c’è leader in Europa che possegga, oggi, quella volontà di guardare nelle pieghe del proprio continente e correggersi. Non sapere che la storia è tragica, oggi, è privare di catarsi e l’Italia, e l’Europa.

Barbara Spinelli: Monti, europeista riluttanteultima modifica: 2013-01-03T15:47:43+01:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo