da Liberazione del 13 agosto 2008
Lea Melandri
Chi ricomincerà a lottare? quelli che sono “senza”
Miguel Benasayag e Angélique Del Rey (Elogio del conflitto, Feltrinelli)
«Por donde saldrà el sol? Da dove sorgerà il sole? E’ la speranza che vive nel cuore della notte a parlare in questa domanda degli indiani d’America. Come sanno gli indiani, la notte può essere lunga. Molto lunga talvolta. Una notte di cinque secoli, così essi definiscono la colonizzazione, il genocidio, la quasi scomparsa del loro popolo. Noi, eredi di quell’Occidente che li ha sterminati, possiamo oggi fare nostro il loro interrogativo… La nostra è un’epoca in crisi. E’ scoccato da tempo il nuovo millennio, ma la miseria, la tristezza, la sofferenza del mondo non sono mai apparse in una luce tanto definitiva».
Con un suggestivo richiamo alle «molteplici dimensioni dell’esistenza», senza le quali «la vita non può perdurare e dispiegarsi appieno», Miguel Benasayag e Angélique Del Rey (Elogio del conflitto, Feltrinelli) chiudono le pagine di un libro raro in un’epoca che sembra fatalmente attratta da logiche opposte, di semplificazione e di scontro, di chiusure identitarie e di rigetto, rispetto a tutto ciò che è dissimile o che esce dall’ordine costituito. Ma quali sono le “ombre” che minacciano di precipitare l’Occidente “civilizzato” in una nuova barbarie?
Contro quali “rischi” si accaniscono le politiche sicuritarie, le misure sempre più invasive di controllo con cui si pensa di poter immunizzare il corpo sociale da un pericolo diffuso e inafferrabile? Parlare di luci ed ombre, contraddizioni e conflitti che si radicano nella molteplicità concreta di ogni vita, vuol dire andare oltre la denuncia di un sistema di potere costretto ad armarsi contro quegli scarti, rifiuti, eccedenze, materiali e umane, che esso stesso produce.
Ogni sollecitazione alla protesta e all’impegno, che non voglia restare volontaristica, deve fare i conti oggi con una “mutazione antropologica” che richiede nuovi criteri interpretativi, per i quali, come ha detto Marco Revelli nell’intervista a Liberazione del 31.7.08, «non ci aiutano né Lenin né Trotsky» ma «il fare da noi». Non dovrebbe essere difficile riconoscere che lo “straniero”, il “povero”, il “fuori norma”, il migrante ridotto alle necessità vitali, incarnano, portandolo in questo modo allo scoperto, il “rimosso” originario di una civiltà che, separando corpo e linguaggio, biologia e storia, ha costruito sbarramenti e frontiere fin dentro i corpi e la vita psichica, e posto le premesse perché quella demarcazione andasse progressivamente a scomparire.
La minaccia – come scrivono Benasayag e Del Rey- viene anche da dentro: «nuclei di razionalità e saggezza vivono l’assedio di pulsioni e passioni non civilizzate…Si tratta di imparare a convivere con tutto ciò che abbiamo rimosso e abbandonato come un’anomalia inammissibile. Si tratta di capire in che modo l’essere umano, l’essere umano così com’è, l’essere umano con il suo fondo di costitutiva oscurità, possa costruire le condizioni di un vivere comune malgrado il conflitto e anzi attraverso il conflitto, mettendo fine al sogno o all’incubo di chi vorrebbe eliminare tutto ciò che vi è, in lui, di ingovernabile».
Se dominanti sono diventati la logica dell’utile e dell’efficacia, l’uomo dell’impresa e della produzione, se la norma ha messo radici nei vissuti più intimi dell’individuo, tanto da essere indotti a cercare il senso della vita in «immagini identificatorie della felicità» – un’automobile, una vacanza, un paio di calzini, un dentifricio, ecc. -, significa che è proprio questa riduttività estrema a fare oggi da ostacolo alla possibilità di riconoscere altre dimensioni dell’umano. Il ritorno di ciò che è stato escluso – i corpi, la vita dei singoli nella sua complessità e interezza, passioni, fantasmi contraddittori – può tradursi in una inevitabile barbarie, ma può anche riaprire la strada al desiderio e al conflitto, alla possibilità di ridefinire su basi meno astratte il legame sociale.
La semplificazione, l’unidimensionalità, appartengono prioritariamente al sistema capitalistico, ma le politiche e i programmi della sinistra non ne sono esenti, dal momento che «muovono senza eccezione dal principio secondo il quale un progetto serio non può non fare i conti con la realtà economica dell’ordine mondiale, ordine in base al quale il sostrato di ogni cosa è un sostrato di natura economica».
La consapevolezza da cui riprendere a interrogare l’azione politica è allora quella espressa molto chiaramente da Ulrich Beck (Repubblica 7.6.08): «la propria vita è quel mondo che contiene in sé tutti gli ambienti… occuparsi di sé, porsi determinate domande (chi sono? cosa voglio? Dove sto andando?) sono atteggiamenti che lo schema sinistra-destra interpreta come segni di perdita, rischio, caduta e fallimento o, in altre parole, come il peccato originale dell’individualismo. Sorgono allora altre domande: in che modo determinate dipendenze e interdipendenze che sono parti integranti della propria vita, possono interagire tra loro, elevarsi a responsabilità e acquisire validità sul piano politico e su quello privato? La vita propria e allo stesso tempo globale è diventata l’orizzonte a partire dal quale in futuro occorrerà elaborare e giustificare il concetto di dimensione sociale».
Gli scarti, le eccedenze indesiderate, i rifiuti urbani e umani, hanno preso non a caso una valenza che va al di là del sistema mercantile e consumistico che li produce. Rappresentano, come ha scritto Guido Viale (Repubblica 23.5.08), un modo di essere e di pensare – «accumulare cose che non ci servono e buttar via a casaccio tutto ciò che ci da fastidio» -, sono il volto capovolto, negativo, del privilegio di cui ancora godiamo e che temiamo di perdere.
Ma guardati dall’ombra che la storia si porta dietro, sono anche potenzialità di vita che una lunga esclusione ha deformato, reso irriconoscibili.
Partire da questo fondo oscuro, da cui le esperienze individuali e collettive emergono nella loro complessità – contraddittorie, molteplici, conflittuali -, porta a ripensare il potere sia nel suo aspetto visibile, macroscopico, sia nelle sue ramificazioni diffuse, incorporate nei modi di pensare e di vivere del singolo e delle comunità, induce a una valutazione diversa del rapporto tra istituzioni e rapporti sociali, tra politica organizzata e movimenti: «Il ruolo centralizzatore delle istituzioni del macropotere ha contribuito ad alimentare l’idea che le istituzioni siano il luogo a partire dal quale viene diretta la vita di una società, ma la realtà dei fatti è ben diversa, e il meccanismo della centralizzazione, paradossalmente, non riserva alle istituzioni che una funzione solo periferica.
Il macropotere non racchiude l’insieme del processo politico e tanto meno sociale. Non ne è che un archivio o un’espressione seconda. Lungi dal racchiudere in sé la potenza del politico, ne è piuttosto racchiuso, orientato, diretto. E’ quindi attraverso modificazioni conflittuali dell’assetto dei micropoteri, che si realizzano i mutamenti più radicali dei modi di vita e dei meccanismi di riproduzione sociale». Pratiche di contropotere sono perciò non solo le associazioni, le ong, i comitati, ma i percorsi più diversi: dell’arte, della medicina, dell’educazione, ma anche dell’urbanistica e dello sport, processi molteplici in grado di «restituire la trama della società a livelli antropologici».
Nessun preciso fronte politico, perciò, nessuna avanguardia dotata di funzioni direttive, quale potrebbe essere il partito. Una realtà di questo tipo – osservano Benasayag e Del Rey – «non è in genere ben accetta da parte dei militanti di stampo classico, che in essa vedono il rischio della dispersione». Eppure, è proprio l’«azione circoscritta» che permette di vedere i conflitti che ci
attraversano, e di riconoscere l’illusorietà delle situazioni definitive. «Noi siamo strutturalmente vincolati ad agire e pensare in situazione, e, se è vero che una situazione coincide sempre, sul piano intensivo, con una serie infinita, sul piano estensivo questo si traduce nella condanna ad agire sempre in condizioni di almeno parziale ignoranza, dato che non è possibile prevedere lo sviluppo del sistema dinamico che nasce dall’articolazione reciproca di più situazioni».
Il “modello forte” di pratica politica, che viene qui proposto, è quello che sa tenere insieme la rinuncia alle soluzioni universali e la prospettiva unitaria entro cui disporre il molteplice delle nostre azioni. L’elogio del conflitto, al contrario delle logiche di guerra oggi diffuse – paura, invenzione, persecuzione del nemico -, è, perciò, anche «elogio della vita» in tutte le sue manifestazioni.
La tentazione di dare un “soggetto” al movimento reticolare che opera per la creazione di un’alternativa, fa la sua comparsa là dove l’analisi si sofferma sulla forza trainante, “decisiva”, che possono avere le lotte dei “senza”: senza tetto, senza fissa dimora, senza lavoro, strati di popolazione sempre più violentemente messi al bando. Apparentemente, chi si viene a trovare in questa condizione desidera solo ciò che gli manca e che gli integrati già possiedono.
A differenza dei proletari, delle donne, delle minoranze nazionali e sessuali, mancherebbe a queste nuove figure del disagio sociale quella “promessa” che li fa eccedere rispetto agli ambiti di appartenenza, per investire, esplicitamente o implicitamente, l’intera società.
Occorre perciò «costruire uno zoccolo comune delle varie figure dei “senza”: categoria che va riconquistata a gruppi di diverso genere, la cui definizione non deve peraltro rinviare solamente alla privazione di un certo bene». E’ questo allargamento di una condizione che riguarda oggi i protagonisti più diversi del vivere sociale – dal migrante al ricercatore che difende la sua scienza contro l’esigenza utilitaristica delle scienze odierne, dall’artista che rifiuta di svendere il suo desiderio di creazione all’insegnante, al disoccupato -, che va a collocare i “senza” nel cuore di un passaggio nodale del nostro tempo, «incarnando il punto in cui la promessa della modernità si rovescia nel divenire “senza” della popolazione».
Questi movimenti mostrano, con la loro stessa esistenza, quello che è il difetto macroscopico del sistema, cioè l’impossibilità della sua estensione universale. La «materialità del nuovo secolo», per usare una espressione di Marco Revelli, trova effettivamente in questo, come in altri saggi di Benasayag, uno sguardo originale, capace di portare allo scoperto le molteplici, contraddittorie facce di un potere che intreccia produzione e modi di vita, relazioni sociali e vissuti personali, sessualità e politica.
Di conseguenza, si fanno più chiari anche i molti, diversi percorsi attraverso cui si manifestano segni di ribellione, dissenso, conflitto e resistenza: dalle frontiere interne della società ai confini interiori dell’individuo, dalla norma che interviene dall’esterno sulle nostre vite a quella che agisce, invisibile, come imperativo incorporato. Da questo orizzonte, che sposta i confini della politica spingendola fino «alle radici dell’umano», si apre la prospettiva, sia pure a lungo termine, di movimenti multiformi, collegamenti insospettati, capacità creative che già il ’68 aveva fatto intuire, nel momento in cui aveva posto come elementi indisgiungibili del processo rivoluzionario: corpo, individuo e legame sociale.