David Bidussa, La parola negro

In “il Secolo XIX”, 3 ottobre 2008, p. 19
David Bidussa
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La parola “negro” risuona ormai troppo spesso.

E’ segno di un razzismo che viene da lontano
La vicenda di Emmanuel Bonsu Foster – il ragazzo che accusa la polizia municipale di Parma, di averlo aggredito e insultato gridandogli “sporco negro” – rischia di concentrarsi sul piano delle emozioni, anziché su quello della realtà. Laddove per realtà non intendo né solo, né prevalentemente, come sono andati i fatti per davvero, ma il clima culturale ed emozionale in cui stiamo vivendo. Forse molti archivieranno questo nuovo episodio di cronaca – quando comunque si sia chiarito esattamente come sono andate le cose – come un ennesimo “incidente”, al più un disguido. Non sono d’accordo. Quando gli episodi cominciano a individuare una serie ripetuta e vicina nel tempo, l’elemento della casualità, ammesso che ci sia, va in secondo piano. Si impone invece di fare i conti con la r dimensione dell’insofferenza quotidiana.
La svolta, tuttavia, c’è. Riguarda il luogo e il modo. Il luogo: il fatto che un episodio di questo tipo non avviene in una provincia degradata o in una periferia disagiata, ma nel cuore di quella “Italia mediana” che tradizionalmente ha rappresentato un polo dello sviluppo, del sistema dei distretti industriali in cui s’incrociano competenze tecniche e qualità professionale, ma anche una regione – l’Emilia-Romagna – vissuta come realtà in sviluppo. E il modo: l’episodio di Parma non rinvia a scontri tra bande rivali in cui si simula o una guerra tra “tribù”, in cui ognuna si assegna un nome, si dota di un’identità e quando si tratta di colpire l’avversario non ha regola se non quella di picchiare duro e “tirare a far male”, fisicamente e anche moralmente.
No, la svolta è di un altro tipo e riguarda qualcosa con cui l’opinione pubblica non vuole fare i conti o fa finta di farli. Riguarda prima di tutto il linguaggio. E il linguaggio non si crea dal nulla. Le parole che usiamo hanno una storia. Dicono quando sono entrare nella nostra mente e con quali significati vi sono entrare. Dicono soprattutto, se quei significati non si modificano, che non è mai stato fatto un lavoro stringente su di esse.
La parola “negro” è tornata in queste settimane a circolare con estrema facilità e, soprattutto, a non sollecitare una reazione o uno scandalo. Forse è la fine del “politically correct”. E’ sufficiente? Non credo. Il “politically correct” ha avuto possibilità cittadinanza solo sulla base di una condizione preliminare: che quel linguaggio valeva solo a telecamere accese.
Si potrebbe affermare che questo costituisce un indizio di quella doppia moralità, di quella “falsità” che fa parte del carattere nazionale Può essere, anzi forse è così. Tuttavia, questa non è una risposta. In ogni caso è una risposta autogiustificativa. Se si vuol capire il linguaggio profondo che oggi consente di dire parole, di esprimere concetti, di affermarli in pubblico ritenendoli legittimi c’è solo da osservare e da riflettere sul linguaggio collettivo che corre dalle tribune degli stadi alla quotidianità infrasettimanale. Non è vero che la domenica, come il tempo di festa, è un tempo diverso da quello quotidiano, un tempo per cui valgono regole e, comportamenti e valori diversi da quelli in vigore nei giorni feriali. Da tempo il linguaggio della domenica informa il linguaggio degli altri giorni, dice e indica un malessere sociale e ora soprattutto culturale, che il nostro Paese attraversa e vive da tempo. Un malessere che non riguarda solo la rabbia. In ogni caso quella rabbia si è costruita un suo sistema di spiegazione della realtà, che informa l’agire collettivo e a fronte della quale non c’è un altro linguaggio collettivo in grado di contrastarla.
Una condizione che sarebbe riduttivo assumere solo come un’emergenza. Perché essa, invece, ha una storia lunga nel nostro Paese che non nasce nel 1938, con leggi razziali: la precede e per certi aspetti la prosegue. Come ricostruisce per esempio Francesco Cassata in un libro uscito in questi giorni (La “Difesa della razza”, Enaudi) quel linguaggio nasce all’inizio del Novecento, si rafforza tra anni ’20 e anni ’30 trova un suo luogo di definizione nell’Italia delle leggi razziali, ma non finisce con l’abolizione delle leggi razziali. Rimane sottotraccia nel secondo dopoguerra, perché in Italia e riemerge quando il Paese deve affrontare la fine dell’omogeneità cristiana e l’inizio di una convivenza multiculturale nei confronti della quale non ha un bagaglio culturale adeguato e per di più in una congiuntura di crisi politica che sollecita un nuovo sentimento nazionalistico ed esclusivistico. Tutto questo per uno scherzo del destino avviene mentre il sistema politico riflette sui 70 anni della legislazione razziale del 1938 e afferma solennemente “mai più”, legando questo suo intento a un impegno tanto formale quanto inconsistente e a un profilo culturale che non c’è.

David Bidussa, La parola negroultima modifica: 2008-10-03T19:00:00+02:00da mangano1
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