Lea Melandri,”L’erba voglio” e il femminismo

da LIBERAZIONE, 10 DICEMBRE 208
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Lea Melandri
Io vorrei portare l’attenzione su due movimenti -il movimento non autoritario
nella scuola, la rivista “L’erba voglio”, e il femminismo – a cui devo la nascita
del mio impegno sociale e politico, un impegno che è rimasto inalterato nel
tempo, nonostante siano passati quarant’anni, e che non avrebbe potuto
avvenire altrimenti, data la mia estraneità alle forme organizzate della politica

Lea Melandri
Io vorrei portare l’attenzione su due movimenti -il movimento non autoritario
nella scuola, la rivista “L’erba voglio”, e il femminismo – a cui devo la nascita
del mio impegno sociale e politico, un impegno che è rimasto inalterato nel
tempo, nonostante siano passati quarant’anni, e che non avrebbe potuto
avvenire altrimenti, data la mia estraneità alle forme organizzate della
politica. L’uscita da una dimensione solo privata della vita, che è avvenutaLEA1.jpg
allora per me come per moltissimi altri, non posso che riferirla a un
mutamento della politica stessa, che per la prima volta si avvicinava alla
“quotidiana comune esperienza”, interrogava l’origine sociale, ma anche il
diverso destino toccato a un sesso e all’altro, apriva, come nel mio caso, figlia
di contadini che aveva avuto il privilegio di poter studiare, la possibilità di
rivedere con sguardo critico un percorso scolastico che aveva lasciato “fuori
tema” una larga parte di vita, la più dolorosa, di mettere in discussione il ruolo
di insegnante nel momento stesso in cui stavo per assumerlo. Sono stati due
movimenti che hanno prolungato la “lezione del `68” per quasi tutto il
decennio anni ’70, quando già la “rivolta degli studenti” ripiegava verso forme
più tradizionali della politica: i gruppi extraparlamentari, in tutto simili ai partiti,
e la lotta armata. Forse è stata proprio questa durata, i conflitti che ha aperto
in un fronte “rivoluzionario” che si voleva il più unitario possibile, sotto la
bandiera delle lotte operaie, a far sì che vi cadesse sopra una dimenticanza
sospetta, quella operata dalle ricostruzioni storiografiche, dalle ricorrenze e
dalle mostre celebrative. Chi non ha dimenticato è la destra oggi al governo,
che si accanisce a demolire alcune delle conquiste più significative di quella
stagione “breve e intensa”.
Non penso che la destra si stia accanendo contro un fantasma, ma neppure,
al contrario che ci si trovi oggi di fronte a un “nuovo `68”, evocato dal
movimento in atto nella scuola e dalla comparsa sulle piazze di una
generazione di femministe e lesbiche, decise a riportare l’attenzione sulla
famiglia, come luogo in cui si consuma il potere più violento degli uomini
sulle donne. Nella storia degli individui e delle società non esistono solo
“repliche” cieche o cancellazioni definitive di ciò che si è già vissuto, ma
anche “riprese” -quello che Elvio Fachinelli, uno dei più originali interpreti del
’68, ha chiamato «il paradosso della ripetizione»-, è cioè qualcosa che
emerge dal passato e che, riproponendosi in un contesto diverso, si espone
perciò stesso al cambiamento, a nuove vie d’uscita.
Dov’è dunque che vedo “riprese”? Innanzi tutto, ci sono analisi, intuizioni, da
cui quei movimenti hanno preso avvio, e su cui hanno fondato le loro pratiche
anomale, che appaiono oggi più attuali di allora. Nell’articolo Il desiderio
dissidente , pubblicato sui “Quaderni piacentini” nel febbraio 1968, Fachinelli,
distanziandosi sia dalla psicanalisi che dal marxismo, che avevano irrigidito
la contrapposizione tra individuo e società, leggeva, nella società di massa,
nel trionfo del consumismo, il declino dell’autorità paterna e l’emergere di
figure più astratte e indeterminate del potere, ma soprattutto un fantasma più
arcaico di «madre saziante e divorante», una società che prometteva
liberazione dai bisogni, sicurezza, in cambio di dipendenza, servitù, rinuncia
a sé come «progetto e desiderio». Non è difficile constatare quanto questa
tendenza alla passivizzazione, al consenso, all’integrazione in un sistema «il
cui funzionamento è già previsto in anticipo», sia diventata il tratto dominante
della nostra epoca, la “mucillaggine” in cui siamo immersi. La grande
mutazione che si è profilata allora era lo spostamento dei confini tra privato e
pubblico, rapporti e contaminazioni sempre più intensi tra poli
tradizionalmente separati. L’uscita da ogni dualismo, a partire da quello tra
maschile e femminile, corpo e linguaggio, biologia e storia, è stato, al
medesimo tempo, l’esito di una società di massa, di mercato, di spettacolo, è
l’acquisizione più importante dei movimenti che hanno tentato di controllarne
lo sviluppo, volgerlo ad altri fini.
Dall’esperienza degli asili autogestiti venne allora l’idea che, per sradicare
modelli precocemente incorporati, fosse necessaria una «politica radicale»,
capace di «andare alla radici dell’umano», dal femminismo la scoperta della
politicità della sfera personale, e di tutte quelle esperienze che la storia, la
politica, la cultura tradizionalmente intese hanno confinato nell’immobilità di
un ordine naturale. Con una «scandalosa inversione», il racconto
dell’esperienza, del vissuto del singolo, diventava più importante del
linguaggio codificato della politica. Non è un caso che, proprio in
concomitanza con quello spostamento di confini, siano comparsi sulla scena
pubblica soggetti “imprevisti”, i giovani e le donne, e insieme a loro
problematiche legate al corpo, alla sessualità, all’inconscio, esperienze
essenziali dell’umano tenute in un lungo esilio. Al centro della politica si sono
venuti a porre soggetti visti nella loro interezza -corpi pensanti, sessuati-,
nella loro irriducibile singolarità e in ciò che li accomuna agli altri esseri
umani. Nel momento in cui veniva recuperata alla politica la dimensione
biologica, la memoria del corpo, cambiava anche l’idea di potere, di cui si
cominciava a vedere l’aspetto più subdolo, più devastante: l’interiorizzazione
precoce delle logiche di dominio e coercizione, l’inclinazione alla passività,
alla delega, all’affidamento. Combattere l’autoritarismo, dalla famiglia, alla
scuola, alla società, ha significato allora mettere in discussione tutti i sistemi
che creavano esclusione, competizione, disuguaglianza, a partire dalla
divisone tra chi decide e chi esegue,e, per un altro verso, incentivare la presa
di parola, l’esercizio collettivo del potere, pratiche liberanti, capaci di favorire
in ognuno quella che Marx chiama la «passione dell’uomo», una «totalità di
manifestazioni di vita umana». Guardando la fiumana di bambini, maestre,
madri, padri, insegnanti, studenti di ogni ordine di scuola, che si è rovesciata
in questi ultimi tempi per le strade delle città, le assemblee, le lezioni
all’aperto, l’intercambiabilità delle voci, la creatività delle forme di
contestazione, viene da pensare che, sotterraneamente, sia passata
un’acquisizione essenziale di quei movimenti: il far politica in prima persona,
il rifiuto della delega, la ricerca di nuove forme di rappresentanza, un agire
rispettoso dell’individuo e della collettività.
Ma c’è una contraddizione evidente. Oggi, saltati i confini tra sfera personale
e sfera pubblica, le problematiche del corpo, della persona, del rapporto tra i
sessi, hanno assunto un protagonismo e una centralità mai conosciuta prima,
ma non nella direzione che avremmo voluto. Non sono venuti allo scoperto i
“nessi”, che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro, e che volevamo fare
oggetto della nostra ricerca, ma un “amalgama”, un accorpamento
preoccupante, indistinto tra sfera domestica e istituzioni pubbliche, casa e
polis, azienda e Stato. Le «acque insondate della persona», da cui era partito
il femminismo, per costruire una cultura “altra”, antagonista, capace si mettere
in causa istituzioni «funzionalizzate a un sesso solo», sono diventate il
terreno più fertile su cui crescono l’antipolitica, il populismo, la
personalizzazione del potere. Il corpo, la sessualità, la donna, si sono
emancipati ma “in quanto tali”, cioè conservando i segni che vi ha impresso il
lungo esilio dalla vita pubblica e la secolare “naturalizzazione”: corpo-oggetto
dei massimi poteri, corpo biologico e corpo rappresentato, esaltato
immaginativamente dai media; donne presenti nella vita pubblica ma in gran
parte ancora subalterne, impigliate negli stereotipi e negli habitus del
maschile e del femminile.
La domanda che viene da porsi è: come mai un processo di cambiamento,
che era stato portato allo scoperto con tanta lucidità, ha potuto sfuggire così
vistosamente di mano, prendere strade indesiderate, giocare oggi a favore
delle forze più insidiosamente autoritarie e conservatrici del paese? Perché
le culture prodotte dal movimento libertario e dal femminismo, pur avendo
molto da dire riguardo agli interrogativi del presente, sono così silenziose,
così poco incisive? Gli ostacoli, le difficoltà vanno cercate innanzitutto
all’interno del proprio sviluppo, ma è innegabile che non poco ha contato
l’arroganza distruttiva di una cultura di sinistra, fondata su una decisionalità
quasi esclusivamente maschile, che ancora non riesce a mettere al centro la
“vita intera”, a prendere atto che, come già si leggeva sull’ “Erba voglio” molti
anni fa, «la vita di un essere umano è più che il suo posto nella produzione;
lo sappiamo per l’esperienza concreta iscritta in noi dalle ore passate a
giocare, a fare l’amore, a ricordare, a dimenticare».

10/12/2008

Lea Melandri,”L’erba voglio” e il femminismoultima modifica: 2008-12-10T22:08:00+01:00da mangano1
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