Adriano Sofri,Avraham B. Yehoshua,DUE INTERVENTI

AdriANO Sofri Bisogna fare molta attenzione
adriano.jpg
(Piccola posta) da Il Foglio del 8 gennaio 2009, pag. 2

Sono convinto che sia prezioso il legame fra la nostrana discussione sulla
vita sacra e la discussione sul valore della vita in una cosiddetta guerra. Non
certo per rinunciare, né attenuare, al confronto, la premura che possiamo e
vogliamo permetterei nei confronti della vita debole e minacciata. Ma per
meritarci il nostro metro, per misurare sul nostro metro, sul metro del lusso e
della fortuna, tutte le vite, in pace e in guerra, e a qualunque latitudine.
Impresa ambiziosa, eh? Due giorni fa dalla Casa Bianca la signora Bush e le
sue figlie hanno annunciato la morte – “la scomparsa”, hanno discretamente
scritto della loro amata gatta diciottenne. E’ facile la tentazione al sarcasmo,
alla sovrapposizione, per esempio, dell’effigie della gatta a quella di una adriano1.jpg
bambina di Gaza. Troppo facile. Il presidente Bush si è detto “deeply
saddened” per la perdita di India (il nome della gatta, soprannominata anche
Willie e Kitty). Il prossimo presidente Obama sie detto “deeply concerned” per
quello che avviene a Gaza. Se cadessi nella tentazione, smentirei l’amore
che ho per la mia cagnolina (si chiama Brina, soprannome Piccola o
Piccolissima) e il dolore di cui partecipo, con persone cui sono aílézionato,
per la morte di una cagnetta da loro amata. Non devo vergognarmi di amare
adriano2.jpggattini e cagnolini miei e altrui, devo chiedermi se amo abbastanza i bambini
altrui, e se la cura e la riconoscenza che ho per la mia cagnolina non mi
consigli qualche buona idea per i cuccioli palestinesi, e anche per i grossi
elefanti del Kivu del nord. Ho chiamato lusso questa premura, ma non’voglio
dire che venga in mente solo a noi nel nostro (provvisorio) privilegio.
Piuttosto, solo noi possiamo permettercelo. L’altroieri (su Repubblica) il diario
di una giovane palestinese di Gaza City, raccontando l’angoscia della vita
quotidiana sotto le bombe e le sparatorie, diceva di una sua sorellina
addolorata (saddened? concerned?) perché non era più tornata al suo
balcone l’allodola abituata a venirci a becchettare il suo mangime. Ecco. Non
occorre deridere il necrologio di India, detta Willie o Kitty, alla Casa Bianca.
Bisogna fare molta attenzione al rimpianto di una bambina per un’allodola
scappata dal balcone di Gaza City.
++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++

Avraham B. Yehoshua
Hamas non ha pietà della sua gente

da La Stampa del 8 gennaio 2009, pag. 1

La vigilia del nuovo anno, io e la mia famiglia abbiamo ritenuto opportuno
mostrare solidarietà ai civili israeliani costretti nei rifugi del Sud e, anziché
festeggiare, siamo rimasti a casa a guardare la televisione. Ci siamo
sintonizzati sul canale televisivo ARTE che trasmetteva un balletto con la
coreografia di Béjart eseguito dal corpo di ballo dell’Opéra di Parigi. Non
riuscivamo però a dimenticare la guerra e, premendo un pulsante,
passavamo da L’uccello di fuoco di Stravinskij ai devastanti uccelli di fuoco in
volo tra Khan Younis e Sderot, tra Gaza e Beer Sheva; dal ritmo incalzante,
insistente e straordinario del Bolero di Ravel a quello tragico, ripetitivo,
infinito del conflitto israelo-palestinese. Solo due anni e mezzo fa noi,
residenti del Nord, eravamo rintanati nei rifugi per difenderci dai razzi di
Hezbollah e ora sono i civili del Sud a trovarsi nella stessa situazione. Le
armi cambiano e si fanno più sofisticate, i mezzi di comunicazione migliorano
e il mondo è sempre più globalizzato ma nella nostra regione il conflitto
rimane immutato.
La caparbietà, l’idiozia, l’integralismo, l’ipocrisia, l’odio, la disperazione e
l’utopia sono prerogativa di entrambi i fronti. Sì, entrambi i fronti! Non c’è
quindi da meravigliarsi se cercammo rifugio dalle immagini della tv israeliana
nella meravigliosa danza di Maurice Béjart che concludeva il reboante Bolero
in un formidabile crescendo. Anche il conflitto israelo-palestinese, che
prosegue da più di 130 anni, si concluderà in un formidabile crescendo?
Sarà una catastrofe o una positiva catarsi di rappacificazione e accettazione
della realtà «dell’altro»? Forse però posso dire ancora qualcosa di nuovo a
quei lettori italiani che non ne hanno abbastanza del conflitto mediorientale e
sono disposti a leggere l’ennesimo articolo sulla situazione, magari per
tentare di capire, nella farragine di analisi e resoconti, da che parte stare, a
chi garantire il proprio appoggio morale, chi – in questa fase – è l’aggressore,
chi merita pietà e chi solo rabbia e biasimo e se la violenta reazione
dell’aggredito sia legittima.
Per giudicare equamente le parti occorre avere una visione complessiva
dello stato delle cose. I palestinesi di Gaza sono da condannare per il loro
supporto delle azioni criminali di Hamas mentre i loro fratelli in Cisgiordania
meritano compassione e simpatia per il comportamento aggressivo e iniquo
che Israele mantiene ai check-point e nelle colonie. Agli israeliani che
attaccano Gaza per distruggere le basi di lancio dei razzi sparati sui civili va
piena comprensione ma in Cisgiordania, nel contesto dell’occupazione,
quegli stessi israeliani continuano a commettere prepotenze e angherie.
L’osservatore esterno dovrebbe dunque adottare un punto di vista meno
semplicistico, un criterio di giudizio che, pur mantenendosi fermo ed
equilibrato, non sia piatto e unidimensionale. Israele, dopo la guerra dei Sei
giorni, ha governato Gaza per 38 anni. Tale periodo di dominio si è rivelato
problematico soprattutto a causa degli insediamenti che vi erano stati eretti.
Malgrado infatti la presenza di un milione di palestinesi Israele confiscò quasi
un quarto del territorio della Striscia per costruire colonie in cui si insediarono
solamente 9 mila ebrei. La violenta opposizione degli abitanti di Gaza
all’esercito ebraico e ai coloni in quel periodo era dunque giustificata e si è
dimostrata efficace. Tale opposizione, che per cinque anni, durante l’Intifada,
è costata la vita a una quarantina di soldati e civili israeliani, ha costretto
infine Israele al ritiro, allo smantellamento degli insediamenti e alla
riconsegna dell’intero territorio di Gaza ai suoi abitanti, o, nella fattispecie, al
governo di Hamas democraticamente eletto.
Ma i dirigenti di questa organizzazione, inorgogliti ed esaltati dalla
sensazione di vittoria, invece di tirare un sospiro di sollievo, riappropriarsi
delle terre evacuate dai coloni e dare il via a un accelerato processo di
ricostruzione che tutto il mondo avrebbe guardato con favore concedendo
ampie e generose sovvenzioni, hanno cominciato a programmare il
proseguimento della lotta. Come se il ritiro israeliano non fosse che il primo
passo per un definitivo annientamento dello Stato ebraico. Non bisogna infatti
dimenticare che l’ideologia integralista di Hamas, condivisa da non pochi
palestinesi, non riconosce la legittimità dell’esistenza di Israele, e non importa
entro quali confini. Come dopo il ritiro unilaterale israeliano dal Libano
meridionale gli esponenti di Hezbollah si erano illusi di poter sgretolare
Israele e avevano aperto il fuoco sulle comunità civili del Nord portando
morte e distruzione nel proprio Paese, così i palestinesi di Gaza hanno
cominciato non solo ad accarezzare il sogno di una liberazione della
Palestina ma anche quello di una utopistica grande rivoluzione islamica,
ispirata da Iran e Hezbollah. E anziché rifornirsi di materiali edili e di
macchinari per l’industria, hanno fatto scorta di razzi – anche a lunga gittata –
cominciando a martellare i centri abitati israeliani del Sud. A tale pioggia di
razzi Israele ha risposto chiudendo i valichi con la Striscia e ponendo un
embargo sui rifornimenti a quella piccola e isolata regione. E allorché al
termine di una tregua di sei mesi gli uomini di Hamas hanno ripreso a
sparare contro le comunità civili (arrivando a lanciare fino a 70 razzi al
giorno), è scattata l’attuale offensiva militare. Gli europei che osservano
questa guerra, pur giustificando la reazione di Israele al lancio dei razzi, si
domandano se non sia troppo violenta, «sproporzionata». Israele è uno Stato
forte e moderno che dispone di armi letali e sofisticate ma si trova di fronte
una popolazione a livello di Terzo Mondo. Sì, i palestinesi di Gaza
possiedono razzi, ma i danni che questi provocano sono relativamente
limitati.
E a riprova di questo è il fatto che le migliaia di razzi lanciati negli ultimi tre
anni, dopo il ritiro dalla Striscia, hanno causato la morte di meno di 30
persone mentre l’esercito israeliano, in una sola settimana, ha ucciso
centinaia di palestinesi. A questo punto occorre però chiarire una cosa
fondamentale. È vero, la potenza di fuoco israeliana è decine di volte
superiore a quella palestinese ma la capacità di sopportazione e di
resistenza dei palestinesi è infinitamente superiore a quella degli israeliani.
Se Israele avesse reagito in modo «proporzionato», rispondendo con un
razzo per ogni missile caduto sul suo territorio, nessuno a Gaza ne sarebbe
rimasto impressionato. I capi di Hamas avrebbero addirittura deriso una
simile reazione e continuato a lanciare razzi a loro piacimento. Dopo un
settimana di bombardamenti israeliani, che hanno causato enormi disagi alla
popolazione e durante i quali sono morti centinaia di palestinesi (per lo più
guerriglieri di Hamas ma anche parecchi civili) e sono stati distrutti numerosi
edifici, non solo Hamas non mostra segni di resa ma non è nemmeno
disposto a negoziare una tregua, a differenza di quanto fecero Egitto e Siria
durante le passate guerre. Il governo di Hamas è indifferente alla sua
popolazione. I capi e dirigenti si sono dati alla clandestinità o, più
precisamente, si sono rintanati nei bunker sotterranei lasciando il popolo in
preda alle sorti di un’irrealizzabile avventura fondamentalista. Non c’è da
stupirsi che, a eccezione di alcune scontate e automatiche manifestazioni di
sostegno, la maggior parte dei palestinesi di Cisgiordania e di Israele,
nonché il mondo arabo, osservino con indifferenza ciò che avviene nella
Striscia.
Che fare allora? Cosa è possibile e giusto sperare? Cosa può fare Israele per
uscire dal circolo vizioso della violenza che domina la sua esistenza fin dal
primo giorno della sua fondazione? Innanzi tutto evitare per quanto possibile
un’offensiva di terra. Israele non ha la forza di sradicare il governo di Hamas
e deve fare tutto ciò che è in suo potere per non peggiorare la situazione dei
civili. Il tentativo di distruggere fino all’ultimo razzo nascosto nei bunker della
Striscia costerebbe la vita a molti palestinesi e a non pochi soldati israeliani.
Solo il popolo palestinese potrà sostituire i propri governanti. Israele può
aiutare la gente di Gaza a cambiare opinione, a convincersi che occorre
riconoscere la realtà dei fatti, abbandonare la via della violenza e
concentrarsi sullo sviluppo e sul benessere. Non dimentichiamo che quella
gente è nostra vicina, ha una patria in comune con noi che chiama Palestina
e che noi chiamiamo terra di Israele e dovrà convivere con noi nel bene e nel
male. Dobbiamo dunque fare il possibile per non inasprire e rendere ancora
più sanguinoso il conflitto. Un simile peggioramento si imprimerebbe nella
memoria collettiva rinfocolando sentimenti di amarezza e di vendetta. Anche i
più estremisti tra i palestinesi non sono creature metafisiche, come non lo
sono gli ebrei. Sono esseri umani soggetti a cambiamenti e persino
un’organizzazione quale l’Olp, che in passato non era disposta a riconoscere
in nessun modo la legittimità di Israele e aveva optato per la via del terrore,
da anni mantiene un dialogo con lo Stato ebraico.
Ma un auspicabile cambiamento a Gaza, dopo l’avvento di una tregua, non
dipenderà solo da quest’ultima e dall’apertura dei valichi di frontiera ma
soprattutto da ciò che Israele farà in Cisgiordania. È laggiù che la politica
degli insediamenti, da sempre uno dei maggiori ostacoli alla pace, dovrà
subire un radicale cambiamento. Ridurre il numero delle colonie e
smantellare subito tutti gli avamposti illegali significherebbe eliminare
barriere divisorie e posti di blocco e agevolare la vita dei cittadini. Ogni
modifica della politica israeliana in Cisgiordania a favore di una più rapida
creazione dello Stato palestinese darà agli abitanti di Gaza, stremati e in lutto
dopo i recenti avvenimenti, la speranza e la determinazione di voltare le
spalle alla politica di Hamas che li ha condotti nel baratro.

Adriano Sofri,Avraham B. Yehoshua,DUE INTERVENTIultima modifica: 2009-01-09T22:52:00+01:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo