Barbara Spinelli,Obama e la maestà della legge

dA LA STAMPA 25 GENNAIO 2009
barbara spinelli, Obama e la maestà della legge
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Sin dal primo giorno del proprio mandato, Barack Obama ha fatto capire qual
è la sua idea di emergenza, e cosa significa nella storia delle democrazie
liberali. I dizionari spiegano che l’emergenza è una situazione di pericolo o
crisi inaspettata, nella quale le pubbliche autorità si mettono in allarme e
assumono poteri speciali. Per Carl Schmitt, che negli Anni 20 e 30 teorizzò la
superiorità del potere assoluto sullo stato di diritto, l’eccezione è «più
interessante» del «caso normale»: quest’ultimo è fatto di procedure ripetitive,
che intralciano la capacità decisionale del vero sovrano. La vera autorità
«non ha bisogno della legge per creare legge». Essa crea proprie leggi,
piegando procedure e costituzioni al proprio buon volere e al mondo nuovo
che promette: le sue leggi, di volta in volta ad personam o ad hoc, instaurano
lo stato di pericolo e sospendono routine normative ritenute inani. Al posto
della fiducia si inocula nel popolo la paura. Nel continente della libertà si
dilata lo spazio della necessità. Riprendendo Hobbes, Schmitt conclude che
non la verità «fa la legge» ma l’autorità, rivelata e temprata dalla situazionebarbara1.jpg
limite (Grenzfall).
Precisamente questo è accaduto nei due mandati dell’amministrazione Bush,
dopo gli attentati dell’11 settembre 2001: la Costituzione è stata sottomessa
alle esigenze del principe e all’accentramento del potere e presidenziale. A dominare non era più l’imperio della legge (la rule of law) ma il sovrano e la
contingente ideologia da esso incarnata. La prigione extraterritoriale di
Guantanamo, dove non valgono le leggi costituzionali americane; le
commissioni militari che senza garanzie giuridiche esaminano i detenuti;
l’uso della tortura; l’abolizione dell’habeas corpus, ovvero del diritto
(risalente
al 1679) che ciascuno ha di conoscere i motivi della propria detenzione:
queste le misure che hanno trasformato centinaia di prigionieri in animali cui
è stato sequestrato il corpo, come direbbe Foucault.
Obama ha messo fine a tali arbitrii, che aboliscono l’equilibrio tra i poteri
voluto dal pensiero liberale. Ed è importante che sia il suo primo gesto,
perché qui è la vera urgenza dei giorni nostri, non solo negli Stati Uniti. La
vera emergenza è l’idea stessa di un’emergenza continua, abbinata alla
promessa di rottura col passato e al proliferare di leggi ad hoc: l’esempio
statunitense ha rafforzato in molte democrazie questa mistificazione
emergenziale-rivoluzionaria.
È stata una loro regressione infantile, fondata sulla convinzione che la
democrazia non avesse una storia lunga, fatta di norme e routine, ma fosse
una pagina tutta bianca da colorare a piacimento. Il principe-bambino fa quel
che crede, immaginandosi onnipotente. Ritorna allo stato precedente la
separazione dei poteri di Montesquieu, quando il potere che s’espande
abusivamente non è ancora fermato da altri poteri. In un passaggio chiave
del discorso inaugurale, il 20 gennaio, Obama ha citato la prima lettera di
Paolo ai Corinzi (13,11): «Rimaniamo una nazione giovane, ma come nelle
parole della Scrittura, è venuto il tempo di metter da parte le cose infantili».
«Divenir uomo» consiste nel ritorno alla norma, nella scoperta del proprio
limite, nell’abbandono della speciale arroganza unita a ignoranza che
caratterizza l’infanzia. Non sarà facile, perché l’America resta ufficialmente
in
stato di guerra con il terrorismo, nonostante la volontà presidenziale di
«tendere la mano a chi vuol aprire il proprio pugno». Anche se la guerra
continua tuttavia, occorre restar fedeli alla Costituzione e alla separazione
dei
poteri. Occorre far capire al mondo che i prigionieri di Guantanamo saranno
correttamente giudicati, che l’America non torturerà né a Guantanamo né in
prigioni segrete sparse nel mondo. L’inverno dell’avversità cui ha accennato
Obama esige la restaurazione della rule of law: «Noi respingiamo come falsa
la scelta fra la nostra sicurezza e i nostri ideali».
È una presa di posizione al tempo stesso morale e pratica. La tortura di
prigionieri privati di habeas corpus non ha facilitato la guerra al terrorismo,
ma l’ha complicata e invalidata. I video di Abu Ghraib sono usati da Al Qaeda
come efficacissimo mezzo di reclutamento. Neppure in stato d’estremo
pericolo (la bomba a orologeria che può esser sventata ricorrendo alla
tortura) le leggi d’eccezione sono utili. In Italia se ne discusse nell’estate
2006: ci furono intellettuali e editorialisti democratici che aprirono alla
tortura,
pensando che l’ineluttabile spirito dei tempi fosse ormai questo.
Sono tanti gli studi che sostengono che la tortura, oltre a essere immorale in
ogni circostanza, è probabilmente inservibile. Essa rende più difficile la
cooperazione internazionale, perché le confessioni estorte sono inutilizzabili
da inquirenti e tribunali. Il giudice spagnolo Garzón è di quest’opinione, e ha
inoltre accusato le autorità Usa di tener nascosti in prigioni segrete testimoni
essenziali per chiarire l’attentato del 2004 a Madrid. Peter Clarke, ex capo
della polizia antiterrorista inglese, ha detto all’Economist nel luglio scorso:
«Ogni evidenza raccolta a Guantanamo è inammissibile». Un uomo umiliato,
cui si infligge l’annegamento simulato (waterboarding), confessa ogni sorta di
bugia. David Danzig in un articolo su Huffington Post del 22 gennaio ricorda
come i maggiori successi siano stati raggiunti da un’«arte dell’interrogatorio»
che rifiuta la violenza, e preferisce l’astuto colloquio con pentiti e perfino
con
combattenti: Saddam Hussein e al-Zarqawi, ex capo di Al Qaeda in Iraq,
furono scovati così.
Non sarà semplice smantellare le tante leggi ad hoc create nell’emergenza
terrorismo, in America ed Europa. Perché sono leggi che lavorano nel buio,
aggirando perfino sentenze delle Corti Supreme come quella statunitense,
che ha restituito ai prigionieri l’habeas corpus. Non è semplice perché ancora
deve esser affrontata la questione fondamentale: è veramente guerra quella
che viviamo? e se lo è come chiamare l’avversario? E se non è guerra cos’è?
Nemmeno Obama ha la risposta, che pure gli toccherà dare senza attendere
altri sette anni. E ancor meno sanno rispondere i governi europei, che
adottano leggi emergenziali d’ogni tipo (sul terrorismo e sull’immigrazione)
evitando furbescamente di dichiararsi nazioni in guerra. Siamo lontani, qui,
dalle autocritiche americane. Tony Blair, che ha mimato ogni mossa e ogni
disastro di Bush, ancora non è chiamato alla resa dei conti.
Ma qualcosa è cominciato, con una prontezza che fa onore a Obama.
Qualcosa comincia a esser detto: che essere uomini adulti in democrazia
vuol dire rispettare leggi antiche, messe alla prova in situazioni ben più
difficili di quella presente. Che il sovrano capriccioso e falsamente
decisionista ha un comportamento immaturo. Che le tradizioni giuridiche
contano: quelle racchiuse nelle costituzioni e quelle iscritte in leggi
internazionali che Bush ha sprezzato, come la convenzione di Ginevra sul
trattamento dei prigionieri. L’ansia di innovare a tutti i costi può esser
letale, in
democrazia. Il mito della «rottura» si sfalda. «Questo è il prezzo e la
promessa della cittadinanza», ha detto Obama ai connazionali. Non a caso
martedì li ha apostrofati in maniera inedita: invece di My fellow Americans, li
ha chiamati My fellow citizens.
La questione morale coincide con il ritorno alla cultura della legalità, in
America come in Europa. È la più grande necessità del momento: non si
restaurerà una duratura fiducia tra governati e governanti, senza
riconversione all’imperio della legge. Non si risaneranno l’economia, la
politica, il clima. L’alternativa è chiudersi in belle bolle e ignorare i fatti:
anche
la bolla è qualcosa di molto infantile, che brilla di tanti colori fino a quando
(inaspettatamente per i bambini) esplode.

Barbara Spinelli,Obama e la maestà della leggeultima modifica: 2009-01-25T21:22:00+01:00da mangano1
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