RICORDANDO AMELIA ROSSELLI

dal blog di Giorgio DI Costanzo, 25 febbraio 2009
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Il 22 febbraio scorso Giorgio Di Costanzo, pubblicando nel suo blog un post su Amelia Rosselli, scriveva: “Copio, come sempre, da ritagli originali. Non da fotocopie o peggio, riproduzioni su riviste, etc. Questa intervista è molto importante, forse è l’intervista ad Amelia più interessante ed utile. Quel pomeriggio avevo telefonato ad Amelia e lei mi disse che c’era un giornalista che la stava intervistando. Invito gli affezionati di queste pagine; gli amici Georgiamada, Angela Molteni, Francesco Marotta, Francesco Forlani e tutti gli altri a leggere e studiare attentamente questo lavoro eccellente di Renato Minore e se possibile a diffonderlo. Non è necessario e neanche indispensabile citare questo blog. Tutta l’attenzione deve essere rivolta verso la mia cara amica. Oggi, Amelia Rosselli resta ancora un autore tutto da scoprire. Grazie!”.

Sono onorata dall’invito di Giorgio, di cui lo ringrazio e che accolgo molto volentieri. Qui di seguito, il brano ripreso da In sonno e in veglia, il blog di Giorgio Di Costanzo. Giorgio ha dedicato il suo blog ad Anna Maria Ortese e alle opere di quell’autrice. Ma nel blog sono riportati molti altri articoli e saggi critici riguardanti altri scrittori e tra questi, appunto, anche Amelia Rosselli.
poeti italiani dopo Montale /

Amelia Rosselli

«I versi non debbono ripetere la vita, ma riscoprire qualcosa di nuovo. Il ricordo di mio padre Carlo, assassinato, poteva diventare un tema, un’ossessione: ho cercato di liberarmi con l’aiuto della psicoanalisi»

Il dolore in una stanza

di Renato Minore

(“Il Messaggero”, 2 febbraio 1984)

La mansarda in cui vive è nel cuore della vecchia Roma, a due passi da Piazza Navona. È molto piccola, solo un lungo corridoio e una stanza, con il letto e il tavolo da lavoro. Dalla finestra c’è la visione molto suggestiva che ci si aspetta: una fuga di tetti e tegole. Il silenzio è compatto, assoluto. L’ultima luce del pieno pomeriggio invernale scorpora lentamente la sagoma ai pochi oggetti che stanno intorno: le pareti foderate di libri sono una massa incerta, sfumata, irreale. Resta solo la sua voce; e qualche volta, la sua risata. La voce è gutturale e affrettata, come di chi ha dovuto ricavare l’italiano da un’esperienza plurilingue e cosmopolita.

Le parole sono spesso tronche, precipitano nel finale quasi per la fretta nervosa che le divora. «Io, che mi mangio le parole, appena pronunziate» dicono alcuni versi di Amelia Rosselli. Quando esplode, la risata è invece piena, prolungata, compiaciuta. Si dovrebbe parlare di poesia, della sua poesia che – come ha scritto Pier Vincenzo Mengaldo, riconoscendo alla poetessa il giusto posto dopo tanto silenzio e tanti fraintendimenti – «resta un fenomeno in sostanza unico nel panorama letterario italiano». E il caso vuole, che dopo il primo imbarazzato approccio, un evento si sovrapponga al nostro incontro che sta per iniziare: la radio trasmette proprio ora una lunga intervista con la Rosselli che si conclude con una sua lettura di versi. L’ascolto per entrambi è d’obbligo. Osservo la Rosselli che si ascolta. È tesa, a volte ironica («sa, bisognava essere un po’ didattici»), sembra insieme coinvolta e distante mentre il transistor diffonde la sua dizione netta che trancia le sillabe ed esprime una «continuità a singhiozzo»: un flusso esistenziale e psichico pressoché ininterrotto, con rare illuminazioni e un’impenetrabilità di fondo che però non respinge, ma sembra invitare a una nuova, impossibile apertura del senso, ad uno spiraglio di maggior chiarezza: «Ho visto fuori marcarsi di saliva ogni mio sforzo al gioco che mal tornava in ondulazioni verdi. Quale foresta di ignari alberi ristoravano le mie perdute forze?».

La trasmissione si chiude con un bellissimo brano di Bach scelto dalla stessa Rosselli, che ora mi sta di fronte, dall’altra parte del tavolo, impenetrabile e ascetica con le mani infilate dentro il maglione di lana. C’è ancora silenzio. Da dove cominciare dopo quella voce così intensa che parlava di qualcosa di struggente e di inafferrabile? Istintivamente si pensa alla sua vita errabonda, difficilissima, di figlia di Carlo Rosselli, l’esule antifascista assassinato a Parigi nel 1937, assieme al fratello Nello; con un po’ di candore, viene da chiedersi quanto di quella vita sia finita nei versi appena ascoltati. Prima di rispondere, Amelia ride di gusto, sembra prendere le distanze. Sorpresa e, poi, quasi compiaciuta: «Già: bisognerebbe fare un censimento di tutte quelle cose che non si è riusciti a mettere nelle poesie. Le propongo un’altra inchiesta su quest’argomento. Vada ad interrogare i miei colleghi poeti, chissà cosa le diranno. Io, per conto mio, molte cose vissute le devo camuffare. Non ho ancora capito cosa escludere e cosa non escludere».

Insomma, non è disposta a rivelarmi i segreti di fabbrica?

«Certo, non posso fare una confessione diretta. E poi, come farla? Le cose vissute vengono distillate, ma non tutte. Anche perché non voglio ripetere la vita, non ha senso. Il lavoro creativo di valore è quello che ha qualcosa di nuovo, d’inatteso».

Molta sua poesia si direbbe poesia d’amore. In «Documento» ci sono alcune dediche, parrebbero esplicite.

«No, c’è poco amore e quello che c’è è involontario, fuori programma. Purtroppo le donne hanno sempre soltanto scritto poesie d’amore o di disamore. D’altro canto da giovane ero più chiara con me stessa. Ebbi pure a che fare con la psicoanalisi».

Il sospetto di questa pratica lo si ricava dalla sua scrittura poetica. Me ne parli più diffusamente.

«Bobi Bazlen, che era mio amico, mi disse: “Devi prima risolvere i tuoi problemi personali, poi scrivere”. Era vero: c’erano tante cose che non avrebbero interessato nessuno. Con un padre assassinato, per me sarebbe stato facile farne un tema, un’ossessione. Ma la nevrosi non si può farla dilagare in forma di libro da far comprare. È inutile esprimerla come sostanza della poesia».

Così andò dallo psicanalista.

«Fu un approccio molto programmato. Andai prima da uno junghiano, Bernhard, per otto mesi. Poi feci una terapia con Bellanova, un freudiano che toccava l’inconscio con più abilità del primo il quale aveva, naturalmente, tendenze al discorso culturale. Fui molto colpita dalla sua capacità d’incidere quasi senza parlare. A quel tempo stavo male: non dormivo mai, quasi non camminavo, mettevo in dubbio lo scrivere stesso. Poi tutto finì. Mi si riconobbe poca nevrosi: i problemi li dovevo risolvere da sola».

D’altro canto dalle sue poesie lei sembra molto freudiana e assai poco junghiana.

«Tendo all’eliminazione dell’io. L’io non è più al centro espressivo, va messo in ombra o da parte. Credo che solo così si raggiungono risposte poetiche e morali valide, valori utili anche alla società. Ma bisogna evitare il tran-tran montaliano: non parlare né dell’io né del tu».

Nella sua poesia giungono a volte echi della realtà violenta, drammatica che viviamo. Sono presenti molti degli orrori di questi ultimi decenni.

«Soprattutto con “Documento”, scritto tra il 1966 e il 1973, e pubblicato nel 1976, ho cercato di esprimere problemi e soluzioni di problemi che sono collettivi. La prima parte di quel libro l’ho scritta fino al ’70, in uno scoppio d’ispirazione, sono cose che capitano. Poi ho faticato ad andare avanti, a mettere ordine: ero come una macchina che girava a vuoto. In ogni caso c’è attenzione alla realtà politica ma non di tipo predicante».

Però è stata iscritta al Pci, ha lavorato in sezione anche assiduamente.

«Mi ha dato una spinta violenta, questa esperienza. Il ’68 l’ho vissuto fedele alla sezione e al partito, ma in stretto rapporto con gruppi anche a titolo informativo, per crearmi una cultura politica. Ma forse sento troppo la musica per accettare la prosodia politica della poesia. Mi dà fastidio, stilisticamente, la gente che dalla politica è passata in letteraura impegnandosi in politica attraverso la letteratura».

Prima dell’attività politica c’era stato l’impatto con Roma, la Roma degli anni cinquanta.

«Vivevo in camere d’affitto, una cosa un po’ balorda: non si addiceva a una ragazza cosiddetta perbene. Appena arrivata, vissi molto isolata. Poi conobbi a Venezia Rocco Scotellaro al primo congresso dei partigiani. Era molto vivo, molto generoso. E fu lui (strano a dirsi per uno che viveva a Portici) ad introdurmi nell’ambiente romano. Era un ambiente molto caloroso di pittori e di scrittori. C’erano le tavolate, molto simpatiche. Io mi sentivo assai ignorante. Dovevo adattarmi, per via della mia formazione non italiana, anglofranceseamericana. Ma fu l’ambiente giusto che mi portò a scrivere. Conobbi Bazlen, fui colpita dalla sua spinta verso l’isolamento».

Scotellaro e Bazlen: non si possono immaginare due persone tanto diverse. Uno «meridionale», l’altro «mitteleuropeo».

«Bobi lo stimava. Rocco gli era simpatico. Diceva: è a posto. Giudicava dal punto di vista morale. Ha molto rispettato anche Pasolini, lontano da lui tanti anni luce. Era all’opposto della vita mondana, salottiera, premiaticcia. Era stato amico di Montale, Svevo, Saba. Forse ebbe qualche dissidio grave con l’ambiente letterario, non ne parlava bene. Forse era un po’ offeso dalla troppo appariscenza dell’arte italiana del dopoguerra. Era poi uno scettico, politicamente. Dopo la sua morte tutti si sono messi a magnificarlo: troppo facile. Era un appartato nel senso più discreto del termine. Mi prestava qualche libro, io gli ho fatto leggere la mia prima poesia decente».

Dal rapporto con Bazlen a quello con il Gruppo 63 il salto mi sembra brusco. Lei ha frequentato Sanguineti e i suoi sodali nelle occasioni pubbliche, nei pronunziamenti che misero tanta agitazione tra i letterati di allora. Come ha vissuto l’esperienza?

«Ho ricordi vaghi, non mi sono mai messa in mostra. Stavo a sentire, tutto quel chiacchiericcio critico era un po’ pesante. Scoprivano Pound, Joyce e tanti altri che io avevo letto mille volte, che io avevo scoperto tanti anni prima, per via della mia formazione non italiana. A me interessavano soprattutto i testi: per esempio quelli di Antonio Porta o di Massimo Ferretti, che morì troppo presto, purtroppo. Sanguineti è molto bravo, ha una forte sensibilità poetica, ma non ha scoperto nulla. E poi non mi piaceva certa guerra un po’ villana tra lui e Pasolini».

E il suo incontro con Pasolini è stato importante?

«Lo rispettavo. Anche se l’ho letto tardi. Fui folgorata da “Accattone”. A lui spiegavo la mia metodologia metrica e lui mi chiese di scrivere un saggio che fu poi pubblicato sul Verri. La metrica per me è essenziale, forse perché provengo da studi musicali. Il verso libero è morto. Ritrovare una propria sistematicità metrica può anche essere utile agli altri, alle persone per cui si scrive, o ai poeti che verranno».

E agli altri pensa quando scrive? Chi è il suo pubblico invisibile?

«Dipende. Scrissi “Serie ospedaliera” in quindici giorni, un altro colpo d’ispirazione. Bene, allora immaginavo i miei versi diretti ad una specie di massa, ad un auditorium senza poltrone. Subito dopo m’iscrissi al Pci. Ma poi si matura. E in genere a volte s’immagina una folla, a volte non s’immagina nessuno, si scrive soltanto per se stessi».

Al rapporto con il pubblico vi hanno comunque abituato le letture pubbliche di versi. Fin da Castelporziano lei ne è diventata una protagonista.

«Ogni volta l’adattamento è tremendo, anche se mi dicono che ora la mia dizione è migliorata. A Castelporziano è nato il problema: come leggere per parecchia gente, come migliorare lo stile di lettura. Bisogna trovare lo spazio per parlare fino all’ultimo banco. Si legge più lentamente, si recita. Spesso mi sono messa in mezzo al pubblico per ascoltare gli altri, ma ho resistito poco, sono uscita esausta dallo sforzo d’attenzione».

Insomma è un’esperienza difficile, anche contraddittoria…

«Sarebbe bello un teatro greco, ricominciare daccapo a fondere musica, recita e poesia. Al massimo si può fare come Evtuscenko, che è molto bravo, che legge perché in quel posto l’ascoltano tante altre persone. D’altro canto il poeta oggi è un po’ superfluo. Pubblichiamo con difficoltà, ma ci chiamano le provincie, gli assessorati. Dove risparmia l’editore non risparmia il Comune. C’è un po’ più di curiosità, ma anche di superficialità. Si chiede più spettacolo alla poesia. Ma la poesia non è per la scena».

Ma allora perché spesso si «esibisce»?

«Da un po’ di tempo ho queste richieste. È un po’ scomodo. D’altro canto la fama poetica è una facciata. È per mille, duemila persone. Io accetto unicamente per il cachet. Sa, in giro c’è poco lavoro di curatela, di traduzione. E poi si vedono posti che non conosci, si rivedono posti che ami. Io ho letto a Matera, Catania, Ragusa: a marzo leggerò ad Arezzo».

Di quest’irregolarità professionale parla senza pudori. Era prevista: cosa poteva fare di stabile una come lei con i suoi studi mai ultimati, non riconosciuti nel nostro paese? Ha lavorato un po’ con Olivetti, traduceva i discorsi di Adriano, ha curato e tradotto libri, ha pubblicato «Documento» a 33 anni [Con molto rispetto, stima e affetto per Renato Minore: Amelia era nata nel 1930 e Documento uscì nel 1976, n.d.giorgio] «per la gloria ma per la ricerca del lavoro», per farsi «un nome più stabile». Le cose non sono molto migliorate: così alcuni anni fa ha dovuto vendere la casa di proprietà. Ora sopravvive soprattutto con le letture poetiche. E lo dice in maniera asciutta, senza alcun protagonismo, senza facili retoriche pauperistiche. Nella stessa maniera poco prima ha ricordato la figura del padre: «L’ho ricostruito leggendo i suoi scritti: quella che era un’immagine è diventata una realtà intellettuale. Non c’era alcuna ostilità nei suoi confronti ma avevo paura che ci fosse del donchisciottismo. Ora, comunque, portare questo nome non significa più nulla. Oggi devo spiegare a tutti chi erano i fratelli Rosselli. Prima, appena mi conoscevano, mi chiedevano: Ah, lei è la figlia di Rosselli, di quale?». Nella mansarda di Via del Corallo il silenzio torna compatto. La Rosselli mi accompagna alla porta, scherza sui tanti libri del corridoio. Guardo in fondo lo spazio che ho appena lasciato e ricordo, naturalmente, quattro suoi versi: «C’è come un dolore nella stanza, ed è superato in parte: ma vince il peso degli oggetti, il loro significare peso e perdita».

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Una nota su Amelia Rosselli

Amelia Rosselli è una delle voci poetiche più importanti del ‘900, non ancora riconosciuta come certamente richiederebbe il suo talento. La sua poesia si colloca sulla scia di poeti come Campana, Montale, Rimbaud, ma è ispirata anche a Dante, Petrarca, Shakespeare. Una voce di ampio respiro, che supera i limiti, talvolta angusti, della nostra poesia nazionale. Anche l’adesione, negli anni Sessanta, al Gruppo ’63, sarà contraddistinta dalla volontà di non uniformarsi e da un atteggiamento di orgogliosa distanza. Amelia nacque nel 1930 a Parigi, per le eccezionali vicende che coinvolsero la sua famiglia. Il padre, l’antifascista Carlo Rosselli, fondatore del movimento Giustizia e Libertà, costretto all’esilio a Parigi, venne assassinato nel 1936, insieme al fratello Nello, per mano di sicari di Mussolini. In seguito all’invasione della Francia da parte dei nazisti, Amelia trascorse la sua adolescenza in viaggio con la madre, inglese, e con i fratelli, tra Londra e gli Stati Uniti, fino al trasferimento in Italia nel 1948. Qui trovò lavoro come traduttrice che le permise di mantenersi a Roma e di dedicarsi agli studi musicali, sua prima passione. Venne così in contatto con i musicisti dell’avanguardia di quegli anni, tra cui Turchi, Dallapiccola, Petrassi. La musica sarà un punto di riferimento costante e l’aspetto metrico della poesia continuo oggetto di sperimentazione. Disse anche di aver effettuato, in alcuni casi, delle vere e proprie trascrizioni poetiche da brani di Bach e Chopin. Tra gli incontri fondamentali, quelli con Elio Vittorini e Pier Paolo Pasolini. Mentre un rapporto particolare nacque con il poeta lucano Rocco Scotellaro, a cui fu legata da una profonda amicizia interrotta bruscamente dalla scomparsa prematura di lui e suggellata da Cantilena (poesie per Rocco Scotellaro). Contro questo destino nefasto Amelia sembra tuttavia non arrendersi. Si impone «il desiderio di vincere la battaglia contro il male, la tristezza, le fandonie, l’incoscienza, la pluralità dei mali». Il forte istinto alla sopravvivenza e la risorsa vitale dell’ironia saranno tra le forze volte a contrastare la pulsione di morte sempre sottesa alla sua parola poetica. Ciò che ne risulta è un linguaggio poetico che si dà un ordine e lo distrugge nel medesimo istante, scardinando la sintassi consueta per un nuovo ordine visionario, le regole metriche per un’originale costruzione musicale, introducendo come soggetto la donna, quale voce poetica non tradizionale. Nella poesia, prevalentemente d’amore, si brucia l’attimo di entusiasmo e l’istinto di morte, in un’oscillazione continua tra ansia di felicità e male di vivere. La figura maschile è sempre evanescente e il desiderio insoddisfatto diventa ossessione. La figura retorica più presente nei suoi versi è il lapsus. Amelia Rosselli è vissuta a Roma combattendo un’estenuante battaglia contro i fantasmi generati senza tregua dalla sua mente, fino al suicidio avvenuto nel 1996, a causa dell’aggravarsi dei suoi disturbi psichici.

RICORDANDO AMELIA ROSSELLIultima modifica: 2009-02-27T10:19:00+01:00da mangano1
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