Giuseppe De Rita,Aspettiamo e vediamo

dal MANIFESTO 23.04.2009
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• INTERVISTA di Sara Farolfi

«La nostra debolezza, l’arretratezza, è la nostra forza nella crisi». Il presidente del Censis Giuseppe De Rita parte dalla denuncia pasoliniana di imborghesimento per raccontare il paese e i suoi passati cambiamenti. E quelli che forse non farà

La crisi della metamorfosi

• Tutti parlano e scrivono della crisi: per Tremonti e Marcegaglia ne stiamo già uscendo. Non la pensano allo stesso modo disoccupati e cassintegrati. Per di più si tratta di una crisi mondiale. Su questo abbiamo ritenuto utile intervistare Giuseppe De Rita, presidente del Censis, il più importante soggetto di ricerca sociale in Italia, secondo il quale il famoso «caso italiano», la crisi la ammorbidisce.
Senatus populusque. Lei ha messo in guardia di recente dal rischio di populismo senza senatus. C’è uno stato, c’è un governo, perché il senatus non c’è?

Perché non c’è una classe, una confraternita, una cosa qualsiasi che abbia un’idea generale di questa società e di dove la si possa portare, questo è il punto cruciale. L’oligarchia, il senatus, è quello che garantisce l’unità della nazione verso obiettivi, ed è la mancanza del senatus che crea la dimensione del popolo populista, che ha bisogno di un capopopolo. La bravura di Berlusconi è stata quella di offrire al popolo una possibilità di riconoscimento generico, sempre meno legata a corpi intermedi, come partiti, associazionismo o sindacati, e sempre più solitaria e apicale, all’americana.

Non corriamo il rischio che questo populismo abbia bisogno di un’espressione più «ducesca»? Dovremo rimpiangere Berlusconi?
Non sono così pessimista, e poi ci sono gli anticorpi, che si formano nel momento in cui il pendolo si muove verso il populismo e che in parte esistono già, che si chiamino Fini, Casini o Franceschini, non importa.
Anche la Lega sul terreno del populismo può agire…
Ma si tratta di un populismo non assimilabile a quello nazionale. La Lega è un corpo, un’identità, un riconoscimento collettivo. È una struttura popolare per la quale, a differenza di Berlusconi, la ricerca del consenso avviene sulla base di una stratificazione di interessi. Se la Lega difende Malpensa, per esempio, lo fa concentrando su Malpensa l’interesse del direttore dello scalo, quello degli impiegati dello scalo, degli albergatori e giù scendendo fino agli interessi di chi fa le pulizie. Berlusconi invece difende emozioni, le utilizza, le cavalca e le produce naturalmente. Non come un duce però, mantenendo la ripetizione del momento emozionale senza escalation. In straordinaria sintonia con una società che vive di emozioni ma ne teme l’escalation.

Cosa ci sarà dopo Berlusconi?

Secondo me sarà una fiera battaglia tra chi tenterà di mantenere un livello emozionale alto e chi invece proporrà un ritorno alla politica come mediazione, perché questo è un paese che non ha dimenticato di essere stato governato per quarant’anni da una classe dirigente mediatoria. Può essere stato che tra il 1979 e il 1983 si sia innamorato di una logica di uscita dalla mediazione – e penso al Craxi della verticalizzazione del potere – ma resta un paese nostalgico. La bravura politica di Berlusconi è stata quella di avere capito che la carta, anzi le cinque carte, di Craxi potevano vincere ancora.

E quali sarebbero queste cinque carte?

Decisionismo, verticalizzazione, personalizzazione e mediatizzazione del potere, e naturalmente disponibilità di quattrini. Sono cinque variabili, l’una all’altra conseguenti. Sono passati trent’anni, ma quella cultura è riconoscibile e la sequenza resta valida.
Craxi se le è giocate da militare, Berlusconi invece da borghese…
Craxi giocava la sua personalizzazione con un distacco spaventoso, quello di Berlusconi invece è un decisionismo di prossimità, nella misura in cui si rende prossimo a tutti.
Un piccolo borghese italiano che ha una maggiore rispondenza con questo populus…
Negli anni Settanta Pasolini metteva in guardia dal grande imborghesimento, contemporaneamente usciva il saggio di Sylos Labini sulle classi sociali e noi parlavamo di cetomedizzazione. Chi allora aveva capito tutto era Pasolini. Diceva che saremmo diventati tutti piccoli borghesi e aveva ragione. In molti dicono che il cambiamento politico comincia lì, nel grande imborghesimento che ha cambiato antropologicamente il paese e che ha permesso, alla fine degli anni Settanta, che qualcuno come Craxi potesse dire che avrebbe cambiato l’offerta politica.
L’85% degli italiani è proprietario di casa…
È l’imborghesimento, certo.
È per questo che, come paese, non «sbandiamo»?
Possiamo contare su tre sicurezze: una famiglia, dei risparmi, e la casa di proprietà. Sono tre sicurezza che un inglese e un americano non hanno e che invece il piccolo borghese italiano ha. C’è una specie di arretratezza storica del paese, una ipomodernità che in un momento di difficoltà diventa utile.
«C’è panico, ma non sbandiamo», dicono i «Diari della crisi» che da gennaio il Censis pubblica ogni mese. Ma l’individualismo montante che pervade la nostra società, e di cui diffusamente parla l’ultimo rapporto Censis, non è ancora più rischioso?
L’individualismo montante in questo momento di crisi è quello che ci ha difeso dal panico, perché ognuno di noi ha cercato di arrangiarsi come poteva. La molecolarità del sistema, che fa paura a chi come me fa cultura sociale o a chi come voi fa cultura politica, decomprime tutta la crisi in un milione di punti, ciscuno dei quali non entra nel panico.
È la «compressione del sistema», o la «redistribuzione dei rischi» di cui parlano i «Diari». Ma fino a quando potrà durare?
A essere entrati in crisi non sono solo coloro che si trovano ai piani bassi della scala sociale, i primi sono stati quelli che avevano azioni o obbligazioni, o che avevano fatto investimenti immobiliari negli anni scorsi. Certo, si tratta di una fascia ricca, ma è stato questo l’elemento dirompente, perché si sono trovati non improvvisamente poveri, ma con il valore dei propri beni improvvisamente diminuito. È questa la fascia sociale che si è sentita colpita e ha enfatizzato la crisi.
C’è dunque un caso italiano in questa crisi?
Penso di sì.
Potrebbe replicarsi in Italia quanto sta succedendo in Francia, con i sequestri di manager per esempio?
No, ricordiamoci i casseur nelle borgate, quando mezzo paese disse: arriverà anche da noi. E invece no, non è arrivato. Poi può succedere che qualche goliarda sequestri il ricco con il superbonus, ma non si tratterebbe che di un’imitazione e non sarebbe certo la classe operaia.
Nell’ultimo rapporto Censis si parla di una seconda metamorfosi per il paese. Come uscirà trasformato il paese dalla crisi?
Abbiamo scritto, nel rapporto, che questa era una crisi forte e che non ci avrebbe lasciati uguali a prima. «La segnatura c’è stata, non saremo più quelli di prima, e da questa crisi avremo la spinta a una seconda metamorfosi», l’ho scritta io questa frase citando Agamben. Una seconda metamorfosi giocata sui consumi – che saranno di agiata temperanza, non austeri e neppure smodati – sulle trasformazioni legate all’immigrazione – che cambieranno nei prossimi cinque o sei anni la stessa struttura imprenditoriale del paese – e su nuovi meccanismi di formazione della classe dirigente – che diversamente da quella precedente sarà sempre più fattuale, come Berlusconi insegna. Ma questa seconda metamorfosi rischiamo di non averla, perché la crisi sta lasciando meno segni di quelli da noi previsti. Anche il superamento della crisi potrebbe essere più facile di quanto avessimo previsto. Aspettiamo e vediamo.

Giuseppe De Rita,Aspettiamo e vediamoultima modifica: 2009-04-24T20:16:00+02:00da mangano1
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