Roberto Moro, Il sogno di Botero

Da: Roberto Moro – Web-press <roberto.moro@web-press.it>
A: Attilio Mangano <attilio.mangano@fastwebnet.it>
Oggetto: compleanno
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caro Attilio,

oggi ho deciso di festeggiare il mio compleanno con la pubblicazione di un racconto che spero ti piacerà

il sogno di botero

<http://www.storiaestorici.it/index.asp<

buona lettura, a presto

roberto
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racconto

Il sogno di Botero

Quella notte il professor Botero, giunto ormai alla ragguardevole soglia dei suoi
settant’anni, fece un sogno. Era un sogno ricorrente. Gli parve di toccare con mano una
situazione già vissuta, praticata altre volte eppure sempre nuova nel suo sviluppo, sempre
potenzialmente inattesa e incerta nei suoi esiti. Sognò di essere nella sua casa, ma che la casa
non fosse davvero la sua, fosse un albergo o qualcosa del genere, un ostello, una casa d’altri,
ma a lui familiare. E gli parve che lì, in quel luogo, al suo fianco vi fosse una presenza, ma
non estranea, come se fosse tanto prossima da essere parte di lui e dentro di lui. Vi erano
oggetti confusi e di incerta identificazione, ma anch’essi familiari, residui di epoche
dimenticate e di un continuo abbandono per effetto di naufragi e nomadismo. Doveva uscire,
sentì che doveva uscire e uscì. Gli apparve allora una strada nota che lo portava laggiù, al
limite della strada stessa e camminò in un innaturale silenzio. Nessuno e silenzio. Percepì
allora che, passo dopo passo, quella strada era diversa e mutava quasi nella sua sostanza; il
nome stesso di “strada” non poteva spiegare o dare un significato al suo viaggio e ad ogni
possibile meta. Nel tempo di quel cammino vi era qualcosa di nuovo e di diverso rispetto a
tutte le passeggiate che lo avevano portato là. E avanti, avanti mentre la novità gli muoveva il
cuore verso il tumulto. Battito e battito.
Giunto alla fine di quella strada, o forse un viale, un sentiero, una semplice pista della
mente e del ricordo, Botero fu preso dal panico.
Gli parve allora che una struttura immateriale composta da tutto il suo essere gli fosse
cresciuta sotto il piedi passo dopo passo durante il cammino: una salita lieve a farsi, ma
ripidissima; una vetta o forse … ecco: davanti a lui un abisso di profondità ignote e senza
perché. Percepì di essere come su immensi trampoli. Altissimi trampoli e di lì … precipitò
giù.
Un istante e un tempo interminabile, anzi una assenza di tempo e ancora no. Non così.
Botero precipitava e precipitava come in un vortice, una forza magnetica che giù e giù e
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ancora più giù. Avvertiva che quella materia vischiosa, quel tunnel rapido e solcato da
correnti violente e scomposte, era fatto di cose, oggetti che gli giravano tutt’attorno e senza
posa, senza posa. Istanti di apparizione, poi scomparsa e poi ancora. Ecco lì, un’altra fugace
presenza come un’immagine richiamata da involontarie reminiscenze. E io penso che succeda
davvero così, che quando cadi, precipiti e ti inabissi mentre la luce si affievolisce e vedi di
lontano la superficie, io penso che allora intorno a te riaffiorino i ricordi, si materializzino,
come demoni interiori, fiotti di vita che era e che c’è, riprende forma e sostanza. Io la penso
così.
Botero si rese confusamente conto che era precipito nel suo stesso tempo, affioravano i
ricordi. Eoni, ere, epoche remote scorrevano via in una sorta di presenza inafferrabile. Era
precipitato giù dall’altezza dei suoi innumerevoli anni. E la fine non c’era. Volti, presenze,
nomi dimenticati, luci e luoghi, colori, persino sapori, circostanze, brandelli di circostanze e
di storie. Intrecci connessioni e ancora volti, presenze …
Dicono che all’ultimo, all’ultimo momento, quello del definitivo distacco, ciascuno di
noi ricordi poche essenziali cose. Dicono che allora il film della vita ti scorre per un lungo
interminabile istante dentro e di fronte agli occhi che già non vedono più. Questo film
sarebbe, così dicono, il frutto di una memoria selettiva, preservatrice di tutte quelle immagini,
emozioni e storie che darebbero un senso netto, una ragione profonda ed esclusiva della pena
di essere davvero esistito: come un premio finale. 
Ma per Botero non andava mai così. Il suo ricorrente sogno non gli dava questa
speranza. Come il naufrago al quale è precluso ogni scampo e sta per essere sbattuto sugli
scogli con l’ultima possente ondata, Botero galleggiava con tutti i suoi ricordi; erano tutti lì,
inafferrabili, ma erano lì. E si chiese, ma davvero non era neppure una domanda, se mai
avrebbe avuto il tempo di mettere ordine, se gli fosse stata data l’opportunità di ricostruire,
riannodare … insomma rivivere e vivere una seconda volta questa o quella esperienza,
riafferrare quel volto, quella mano, quel tramonto, quell’umida brezza d’autunno e il frusciare
del mare, del vento che aveva gonfiato le vele di una traversata felice. No, questo tempo non
c’era e il suo tempo non conosceva argini capaci di reggere la corrente del vortice. No,
neppure questa volta, e giù e giù senza alcun possibile controllo, via e via fino all’impatto
fatale. Giù. E allora si risvegliò.

Quando ti capita un sogno così il risveglio non è neppure tale. Incespichi per uscire dalla
notte, vai a tentoni prima di stabilizzare il mondo reale che ti circonda. Succede a tutti e
accadde anche a Botero. Accedeva sempre così. Ma dopo quel sogno, proprio quella mattina,
il vagabondo della notte capì che qualcosa era cambiato.
Aprì gli occhi, ricompose il luogo, la stanza e la circostanza. Calma. Con calma scelse
l’ora e il giorno che aveva lasciato prima di prendere sonno. Era certo un ventidue luglio e
l’anno … l’anno no, non veniva fuori. Riannodò il filo del tempo. La finestra buttava le
occhiate di luce di una soffocante mattina d’estate, illuminava gli oggetti familiari e dettava il
rituale di ogni risveglio: caffè, doccia, sigaretta, ancora caffè, poi i vestiti, aprire la finestra,
che tempo fa? La giornata di Botero cominciava sempre così. Tutto qui, tutto normale?
Quella mattina le cose andarono, a parer suo, diversamente. Botero fu certo,
assolutamente certo di non aver passato la notte da solo. Fu certo, senza ombra di perplessità e
di errore, che quella notte al suo fianco aveva dormito qualcuno. Allungò la mano e ne ebbe la
definitiva conferma dal tepore che emanavano le lenzuola. Di più; percepì oltre al tepore il
profumo di una presenza. E ancor di più: a mente lucida, e uscito definitivamente dal vortice
del suo sogno, sentì il sospiro e lo sguardo di chi aveva dormito con lui. Accarezzò di nuovo
quella parte del letto che aveva ospitato quella presenza e ne ebbe ulteriore conferma.
Qualcuno era stato lì e lì tutta la notte. Botero non si chiese neppure chi poteva essere e
chiamò, chiamò il nome che risuonava ogni mattina in quella casa deserta. Silenzio.
“Ma certo” , si disse, “sarà già uscita. Succede sempre così, tutte le mattine”. Pensò
subito al super market, al giornalaio, al bar, alla fermata della metropolitana dove lei lo
avrebbe aspettato e lui l’avrebbe trovata. Botero uscì senza fretta e con serena fiducia. 

Tutti i giorni esce per un percorso definito, regolare, matematico quasi. Lo sanno tutti e
tutti quelli che sono sulla sua strada  quasi lo aspettano … il supermarket, poi il giornalaio, il
bar, la fermata della metropolitana. Lui chiede con cortesia a tutti se l’hanno già vista, se è
passata di lì. Tutti con amorevole cortesia  gli rispondono ogni giorno che no, quella mattina
no, non l’hanno ancora vista. Chi lo sa? … forse domani …

Roberto Moro

Roberto Moro, Il sogno di Boteroultima modifica: 2010-07-28T10:46:40+02:00da mangano1
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