Giorgio Morale,La valutazione dell’università e l’abolizione del valore legale del titolo di studio

 La valutazione dell’università e l’abolizione del valore legale del titolo di studio
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Carissimi,
vivalascuola questa settimana è dedicata alla valutazione dell’università e all’abolizione del valore legale del titolo di studio:

http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2012/03/12/vivalascuola-107/

“Valutazione” è parola oggi sovraesposta per la sua capacità di fare presa sull’immaginarioo pubblico, e accompagnata da termini come essa sovraccaricati ideologicamente di significato: “eccellenza“, “autonomia“, “meritocrazia“.

Alla valutazione si collega il tema dell’abolizione del valore legale del titolo di studio. Due questioni distinte ma legate in quanto, se realizzate secondo quanto programmato dal governo, potrebbero deprimere ancora di più l’istruzione pubblica e dare origine a nuove disuguaglianze.

La puntata presenta un testo di Ludovico Pernazza (ricercatore all’Università di Pavia e membro della Rete29aprile) e una selezione di materiali di approfondimento.

Grazie dell’attenzione, e un cordiale saluto.

Giorgio Morale

         Vivalascuola. Università: nessuna valutazione o troppe valutazioni?
Pubblicato da vivalascuola su marzo 12, 2012

Non già che mancassero leggi… le leggi anzi diluviavano… Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d’aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano. (A. Manzoni, I Promessi Sposi)

La valutazione nell’Università e il valore legale del titolo di studio
di Ludovico Pernazza*

Sulla valutazione nell’Università si sono pronunciati ministri, economisti, sindacati, associazioni, personalità del mondo della ricerca e dell’istruzione e – ovviamente – membri del personale universitario e degli Enti di ricerca; fare ordine nella questione è un’impresa difficile quasi quanto rintracciare nella storia l’origine delle discussioni circa l’altro tema di questo intervento, l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Perciò, più modestamente, mi limiterò ad illustrare un possibile punto di vista sulle due questioni, oggi più che mai parallele, dando nel frattempo qualche informazione in merito.

Premetto che, lavorando all’Università, io sono anche parte in causa e perciò di certo non imparziale, tanto più dal momento che aderisco al movimento denominato Rete29Aprile che ha contestato l’introduzione della recente legge 240/2010 sull’Università (“Gelmini“) e che con forza sostiene la necessità di mantenere il carattere pubblico e libero dell’Università, aprendola possibilmente più di quanto sia ora alle istanze della società.

Senza valutazione?
Valutare è certamente un’attività complicata da compiere, ma a mio modo di vedere al momento sta diventando difficile anche parlarne; e l’ostacolo più difficile da superare non è, paradossalmente, l’ignoranza della questione, bensì la sovraesposizione che la parola “valutazione” ha subito negli ultimi anni.

Infatti, nella narrazione che le istituzioni e il flusso di informazioni costruiscono costantemente attorno a noi, alcune parole vengono introdotte non tanto per il loro significato, quanto perché hanno la capacità di fare presa nell’immaginario collettivo; e “valutazione” si trova proprio in questa situazione (accompagnata, ad esempio, da “eccellenza“, “autonomia“, “meritocrazia“, per rimanere soltanto in questo ambito).

“C’è bisogno che l’Università si sottoponga finalmente ad una valutazione“, “È tempo di smettere con i finanziamenti a pioggia“, “Vanno premiati i meritevoli“: chi non ha sentito ripetere questi proclami? Il semplice ripeterli tante volte, si sa, li fa poi entrare nel pensiero comune, come nel Mondo nuovo di Huxley. Anzi, come chi si occupa di linguaggio e di comunicazione sa bene, insieme ad essi entrano allora nel pensiero comune anche le loro “implicature conversazionali“: evidentemente, l’Università non sa cosa sia la valutazione, riceve finanziamenti a pioggia e non premia i meritevoli; inoltre, si deduce, la valutazione, la scelta dei finanziamenti e il dare premi solo ad alcuni sono degli obiettivi positivi da perseguire che porrebbero fine a questa situazione insoddisfacente.

Anche se una discussione nel merito non sarebbe affatto scontata né inutile, ad esempio per chiarire se i finanziamenti a pioggia esistano ancora e quanto siano diffuse e forti le distorsioni nella selezione dei migliori, il problema è che queste altre convinzioni indotte, vere o false che siano, sono assorbite forse persino inconsciamente tramite una comunicazione artefatta a questo scopo, per cui la visione della realtà ne può risultare pesantemente deformata. Solo mantenendo un atteggiamento costantemente critico si può sperare di acquisire elementi utili per formarsi un giudizio (almeno parzialmente) indipendente.

E veniamo al nostro caso particolare: in coerenza con l’immagine offerta da questo “discorso” pubblico proprio in questi mesi sta cominciando la sua opera la neonata “Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca” (ANVUR) cui è stato affidato il compito di realizzare la Valutazione della Qualità della Ricerca per gli anni 2004-2010 (VQR 2004-2010). Il sistema universitario farà dunque presto l’auspicato salto di qualità? Personalmente penso che le Università, i Dipartimenti e anche i singoli docenti debbano certamente soggiacere ad un sistema che ne controlli l’attività; mi pare un principio giusto, anzi, per l’intera pubblica amministrazione. Ma almeno per l’Università, caso in cui mi sento di parlare, pretendere che questo sia chissà quale illuminante novità, come talvolta è stata presentata la VQR 2004-2010, e quindi aspettarsi dei risultati maiuscoli, mi pare piuttosto bizzarro; ed ora proverò ad illustrare perché.

O troppe valutazioni?
Precisiamo: nel dire che non mi pare una novità non mi riferisco al fatto che esistano classifiche degli atenei mondiali o italiani, compilate da istituti di ricerca diversi e frequentemente pubblicate sui giornali; anche perché quelle classifiche utilizzano a volte criteri così singolari che, se mai, meraviglia che ricevano tanta attenzione. Mi riferisco invece proprio a strutture e meccanismi sovrapponibili a quelli proposti da questo “esercizio di valutazione” affidato all’ANVUR.

Innanzitutto, anche se non hanno avuto la stessa risonanza, organi deputati alla valutazione dell’Università sono esistiti anche prima dell’ANVUR: a partire dal 1996 ha operato l’”Osservatorio per la valutazione del sistema universitario“, previsto dalla Legge 537/1993 assieme ai “Nuclei di valutazione interna” degli atenei; nel 1998 ha cominciato ad operare anche il “Comitato di Indirizzo per la Valutazione della Ricerca” (CIVR), un organo molto simile all’ANVUR (e istituito dal Decreto Legislativo 204/1998, in attuazione della Legge Bassanini 59/1997: e qui fa di nuovo capolino l’”autonomia“…); dal 2000 l’Osservatorio è stato sostituito dal “Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario” (CNVSU), ancora esistente; compiti di orientamento in materia di Università (e anche di ripartizione di fondi per la ricerca) sono infine tra le attribuzioni del Consiglio Universitario Nazionale (CUN) da molti anni. Tra questi organi, poi, il CIVR ha avuto il compito di fare proprio una valutazione triennale prima (VTR 2001-2003) e una quinquennale poi (VQR 2004-2008) del sistema universitario (occasioni in cui è stata appunto introdotta l’espressione “esercizi di valutazione“).

I risultati della valutazione del CIVR sono già stati usati per stabilire la distribuzione di una parte del Fondo di Finanziamento Ordinario (il principale finanziamento dello Stato agli atenei): la cosiddetta “quota premiale” del 7% creata nel 2009 per dare maggiori fondi agli atenei con valutazione migliore (da notare la differenza rispetto alla “quota di riequilibrio” istituita nel 1993 per eliminare le disparità tra la quota di finanziamento storica degli atenei e la loro consistenza numerica ed efficacia didattica). La quota premiale è poi passata al 10% nel 2010 e al 12% nel 2011 (va detto per completezza che nel 2011 dopo molte pressioni è stata reintrodotta anche una minuta “quota di riequilibrio” dell’1,5%, condizionata però al rispetto di certi vincoli di bilancio).

Perciò qualcosa di simile alla VQR 2004-2010 è stato già fatto. Ma più radicalmente, per direttive ministeriali, europee o semplicemente per la sua natura, l’Università non è affatto estranea a valutazioni, anche a prescindere dal fatto che vengano predisposti organi appositi. In particolare, per esempio nella ricerca sono sottoposti a valutazione i progetti da scrivere per chiedere fondi, spesso sia preliminarmente in ciascun ateneo, sia ufficialmente da parte di revisori internazionali; non raramente, ad esempio per alcuni tipi di progetti europei, è prevista una valutazione annuale o biennale dello stato di avanzamento del progetto, che può avere anche l’esito di decretarne la fine anticipata; sono valutati – naturalmente! – i risultati delle ricerche, per essere accettati per la pubblicazione sulle riviste del loro settore.

Per legge, poi, tutti i docenti devono scrivere una relazione triennale delle loro attività, da sottoporre all’approvazione delle loro strutture; e anche circa la didattica universitaria, ormai da alcuni anni sono una prassi comune i questionari di valutazione dei corsi e degli esami da parte degli studenti e le commissioni che dai risultati dei questionari cercano di porre riparo alle situazioni critiche (pur con le difficoltà che talvolta questi questionari presentano quando si cerca di utilizzarli, vista la situazione asimmetrica tra studenti e docenti).

Oltre a questi meccanismi espliciti sono poi evidentemente all’opera anche fattori impliciti di valutazione, come quando un settore di ricerca particolarmente attivo attira più studenti di uno poco florido, o un ateneo di buon nome è preferito dagli studenti ad altri tenuto (a torto o a ragione) in minore considerazione; un settore che si lascia più difficilmente andare a logiche distorte nel reclutamento dei docenti risulta in un ambiente di ricerca e di lavoro più piacevole di uno in cui queste condizioni non valgono.

Di ciascuna di queste “valutazioni” già esistenti è chiaramente lecito chiedersi che impatto abbia, ed è anche palese che sono tutti suscettibili di funzionare male se opportunamente forzati. Ma un dubbio viene: forse potrebbe bastare spendere un po’ di energie per controllare che vengano utilizzati correttamente e si potrebbe ottenere già un sistema in cui la valutazione è un punto cardine che produce dinamiche virtuose? Forse proprio queste, le cosiddette “buone pratiche“, produrrebbero con naturalezza quel miglioramento che i metodi quantitativi degli esercizi di valutazione vorrebbero catalizzare?

La valutazione e i suoi obiettivi
Non è possibile pensare che ministri e funzionari non sappiano che molto viene già valutato; mi pare che sia quindi naturale chiedersi perché si sente parlare della necessità di realizzare “finalmente” una “vera” valutazione, e quali siano i suoi fini. C’è un’idea efficace alla base di questa spinta? È solo il fatto che risulta più facile ricominciare da zero ricostruendo il sistema della valutazione dalle fondamenta in modo che sia solido, piuttosto che districarsi nel coacervo attuale? Si tratta di un’opzione più lungimirante per migliorare le cose, molto più “costosa” in termini di tempo e di energie nel breve, ma che forse nel lungo termine potrebbe dare risultati migliori? Purtroppo io non credo che sia così.

La spinta viene in realtà da altri obiettivi e quali essi siano lo si può dedurre confrontando le dichiarazioni degli organismi di valutazione. Ecco le finalità della VTR 2001-2003, dichiarate nelle Linee guida pubblicate all’epoca:

“La valutazione della ricerca non deve essere percepita come un meccanismo burocratico o censorio, ma come preziosa opportunità per mettere a fuoco aspetti nevralgici della performance delle strutture di ricerca, quali:

qualità e rilevanza della produzione scientifica,
originalità e innovazione, -internazionalizzazione,
capacità di gestire le risorse (umane, tecnologiche e finanziarie). (…)”.
Quanto alla presente VQR 2004-2010, né nel decreto che istituisce l’ANVUR, né nel Bando per la VQR si trovano le finalità della procedura, ma possiamo tentare di dedurle da questa recente frase del presidente dell’ANVUR, Sergio Benedetto, in un’intervista sul quotidiano la Repubblica (in linea d’altronde con molte dichiarazioni del precedente ministro, per ora non smentite dall’operato del ministro attuale):

“Tutte le università dovranno ripartire da zero. E quando la valutazione sarà conclusa, avremo la distinzione tra researching university e teaching university. Ad alcune si potrà dire: tu fai solo il corso di laurea triennale. E qualche sede dovrà essere chiusa.”

Forse l’unica vera sorpresa in questa dichiarazione è che sia stata fin troppo sincera. Se si tiene conto del fatto che in base alle valutazioni della VQR 2004-2010 verrà distribuita la quota premiale e che questa, a norma della Legge 240/2010, aumenterà progressivamente ogni anno di una percentuale tra lo 0,5% e il 2% del totale (e come abbiamo visto è effettivamente aumentata dal 10% del 2010 al 12% del 2011), mentre quelle della VTR 2001-2003 non avevano questo effetto, la differenza salta all’occhio: non si tratta più di un’opportunità “non censoria” di scoprire dove migliorare, ma di un mezzo per trovare dove tagliare, per poi farlo nell’unico modo che rende certo il risultato, e cioè eliminando una parte dell’offerta formativa. Ragionando per analogia, potrebbe sorgere il dubbio che anche la ricerca dell’”eccellenza” e la spinta all’”autonomia” siano in realtà finalizzate a limitarsi poi a finanziare l’eccellenza, mentre tutti gli altri dovrebbero cavarsela da soli. Sarà pensare male?

Regole future, conseguenze attuali
Se risultassero confermate queste impressioni, mi permetto di dire che come obiettivo per l’università quello di “costare di meno” come obiettivo per l’Università colpisce per quanto è riduttivo rispetto a quello più “classico” e cui sono più affezionato di

“produrre, conservare e trasmettere il sapere collaborando così all’avanzamento della società nel suo complesso”;

d’altra parte, il “sogno proibito” che le due cose si possano realizzare contemporaneamente non è detto si possa realizzare e questi meccanismi, se si trattasse di scegliere, priviligerebbero chiaramente il primo obiettivo. Ora, certamente viviamo un periodo di “crisi“; ma volendo quantificare, stiamo parlando di tagliare una spesa pubblica per l’Università che nel 2009 era già solo circa lo 0,8% del PIL, piazzandosi così al 25° posto nell’Europa a 27, seguita da Bulgaria e Liechtenstein: dobbiamo pensare che gli altri paesi siano dunque immuni dalla crisi?

Ma proviamo ora a ragionare sulle conseguenze: se questo modo di valutare significa poi rinunciare a sostenere ciò che pare funzionare malino, per dare tutte le risorse a ciò che già funziona meglio (si vede qui la coerenza con il passaggio operato da “riequilibrio” a “premio“ nella quota del Fondo di Funzionamento Ordinario), saranno solo le realtà già forti ad avvantaggiarsi ulteriormente e alla distanza a resistere ai tagli.

Pazienza se, magari, qualcosa funziona perché si trova già in una posizione privilegiata, a causa della sua storia o del suo contesto (in contraddizione evidente con il “ripartire da zero” dichiarato); pazienza se un ateneo contiene magari molte realtà disomogenee, alcune di alto livello, altre di basso livello; e pazienza se in questo modo a nessun ateneo conviene aprire la ricerca in un campo nuovo, perché darebbe per troppo tempo un contributo scarso o negativo alla valutazione.

Può sembrare una dinamica lenta, ma l’effetto deteriore non si palesa solo in un lontano futuro, perché mentre gli atenei cercano di “salvarsi” rispettando i vincoli di tipo economico (e, a parte qualche eccezione, avranno sempre più difficoltà a rispettarli se la valutazione e il finanziamento verranno portati avanti come previsto attualmente) al loro interno emergono già spinte decisamente contrarie alla missione culturale dell’Università, tendenti a premiare chi “porta finanziamenti” sotto qualunque forma e a trascurare tutti gli altri, senza riguardo per la qualità scientifica, la rilevanza storica, l’utilità didattica o il servizio alla società.

Non intendo però con queste critiche sostenere che allora sia il caso di desistere da qualunque tentativo di valutare e quindi dare anche giudizi negativi. Ad esempio, non nego di certo che esistano realtà universitarie che sono state create probabilmente per motivi sbagliati, come mezzi per proseguire una politica di espansione o come occasioni per esercizi di potere; come anche sono cosciente che esistono e sono molto diffusi metodi di reclutamento che hanno poco a che vedere con il merito.

Per questo penso che bisognerebbe come minimo fare uno sforzo per creare un sistema che faccia ricadere la responsabilità su chi le scelte le ha compiute, sia che abbia abusato della libertà di cui godeva e abbia prodotto situazioni critiche (selezioni di candidati impresentabili, buchi di bilancio o scelte didattiche insostenibili), sia che abbia agito prudentemente e con raziocinio operando scelte meritorie.

Il sistema attuale però porta paradossalmente all’esatto contrario: le responsabilità e le conseguenze vengono scaricate su coloro che tali scelte le hanno subite o addirittura se le sono trovate come retaggio del passato senza poterle influenzare. Per fare un discorso più completo si potrebbe anche entrare nel merito del meccanismo di questo esercizio di valutazione ed analizzare le sue storture; ma per questo rimando ad esempio agli articoli di Francesco Sylos Labini, Giuseppe De Nicolao ed altri sul blog Roars.

L’abolizione del valore legale del titolo di studio: un passo di libertà che viene dal passato?
È proprio nel momento in cui ci si interroga sul destino dei diversi atenei che il discorso della valutazione si salda con quello che concerne il valore legale del titolo di studio, e ora vedremo come. Ma innanzitutto, a cosa può servire che il titolo di studio abbia valore legale? A cosa abolire questo valore? Per un’inquadratura generale sul piano del diritto, da cui traggo anche qualche spunto qui, rimando ad un intervento di Sabino Cassese sul tema.

L’argomento dei sostenitori dell’abolizione è di solito basato sul fatto che in realtà titoli uguali acquisiti in scuole o atenei diversi o in tempi diversi non debbano essere equivalenti, perché per ottenerli è stato realizzato un percorso più o meno qualificante. L’uguaglianza dei titoli sarebbe quindi una sorta di “concorrenza sleale” e perciò sarebbe giusto eliminarla.

Frequente è anche il riferimento ad un celebre intervento di Luigi Einaudi nel 1955 (1). Sorvoliamo sul fatto che andando a leggere le motivazioni addotte da Einaudi si vede che esse sono principalmente centrate sull’indebita aspettativa di un impiego migliore che un titolo con valore legale indurrebbe in chi lo consegue, da cui deriverebbe la delusione della disoccupazione “intellettuale“: problema che oggi mi pare superato se non altro perché il sopravvenuto benessere e l’accresciuta complessità della società hanno fatto sì che le scelte circa gli studi universitari siano molto meno legate di allora a precise carriere lavorative successive al titolo; oltre al fatto che si potrebbe discutere l’importanza sociale della citata “delusione“.

Va comunque ricordato che i titoli di studio hanno un riconoscimento ufficiale solamente nel corso stesso degli studi (per passare da un livello scolastico ad un altro), nell’accesso a determinate professioni (come il medico o l’avvocato) e nei concorsi pubblici; in particolare, nel settore privato nessuno è obbligato a tenerne conto e di fatto spesso viene dato peso diverso a titoli ottenuti in luoghi o in tempi diversi, realizzando quindi già la differenziazione auspicata dai fautori dell’abolizione.

Analizziamo ora separatamente questi tre ambiti di riconoscimento del titolo. Nel primo caso credo ci sia poco da dire (o vogliamo che una scuola superiore di secondo grado possa rigettare alunni che provengono da talune scuole di primo grado?). Anzi, c’è da aggiungere che una serie notevole di comunicati e di raccomandazioni degli organismi europei che hanno portato avanti il Processo di Bologna per la creazione dello Spazio europeo dell’istruzione superiore danno chiare indicazioni a favore del valore legale dei titoli (Praga, 2001; Berlino, 2003; Comitato dei ministri, 2007 (2).

Nel secondo caso, il richiedere, ad esempio, che un medico per accedere all’esame di Stato debba essere laureato in medicina mi pare una garanzia a cui è difficile rinunciare; in ogni caso, sono proprio le varie corporazioni ad imporre questa richiesta, non lo Stato. Il principale ambito di discussione sarebbe allora quello dei concorsi pubblici. Ma anche in questo caso, a ben vedere, nessuna legge prevede che il peso dei titoli sia preponderante nella valutazione dei candidati; anzi semmai accade il contrario, e cioè che le prove concursuali contino decisamente più dei titoli.

Un discorso forse più attento lo meriterebbero le promozioni interne nella Pubblica Amministrazione che sono talvolta riservate ai possessori, ad esempio, della laurea; talune distorsioni ad esse collegate sfruttano effettivamente il fatto che tutte le lauree, comunque acquisite, sono riconosciute uguali. Ma se il valore legale fosse eliminato non vedo perché questo dovrebbe essere di ostacolo a queste promozioni “facili” e non dovrebbe invece facilitarle aumentando ancora di più l’arbitrio! Per non citare il fatto che nella vicina e spesso ammirata Germania i dipendenti pubblici hanno stipendi che dipendono dal titolo di studio in modo automatico, quindi il valore legale ha un peso molto più grande che in Italia, eppure non risulta che questo sia considerato uno scandalo.

O invece un passaggio verso un futuro di maggiori disuguaglianze?
Perciò, come per la valutazione, dobbiamo chiederci: perché questa enfasi circa il valore legale del titolo di studio? Mi pare che, almeno per quanto riguarda i titoli universitari, la direzione indicata dall’abolizione del valore legale sia molto simile a quella della valutazione dell’ANVUR: se la laurea conseguita in un ateneo con poca tradizione non sarà più ufficialmente uguale a quella conseguita in un ateneo prestigioso, quest’ultimo risulterà certamente ancora più “attraente” di quanto non sia già e un meccanismo che si auto-alimenta amplificherà sempre più le differenze tra i due.

Se si aggiunge di fatto che spesso i fautori dell’abolizione del valore legale del titolo di studio promuovono anche la liberalizzazione delle tasse universitarie (che attualmente devono rientrare nel limite del 20% delle entrate di un ateneo, anche se questo limite viene spesso si fatto superato), si realizzerebbe un’operazione che più che un “bluff” ricorda Ezechiele Bluff alias Superciuk, il nemico di Alan Ford che rubava ai poveri per dare a i ricchi. E di una redistribuzione al contrario la nostra società non mi pare che abbia alcun bisogno, né tra cittadini, né tra atenei.

Ma quand’anche queste critiche fossero superate, ancora più a monte di questo trovo che l’abolizione del valore legale dei titoli di studio sarebbe una sconfitta: nell’istruzione, come in altre aree della cosa pubblica, a mio parere lo Stato non può né deve arretrare rinunciando alle sue prerogative. I cittadini devono poter contare sul fatto che alcuni principi vengono mantenuti e difesi, e tra queste garanzie l’istruzione (a tutti i livelli e nei suoi dettagli) deve conservare il suo ruolo centrale.

Note

(1) Luigi Einaudi, Scuola e libertà, in Prediche inutili, Torino, Einaudi, 1959.

(2) Ringrazio per le indicazioni sul tema Piero Graglia, Ricercatore di Storia dell’integrazione europea, Università degli Studi di Milano.

* Ricercatore in Matematica, Universita` di Pavia.

* * *

                 

Giorgio Morale,La valutazione dell’università e l’abolizione del valore legale del titolo di studioultima modifica: 2012-03-19T16:22:29+01:00da mangano1
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