Guido Mazzoni,Il corso di un particolare

LE PAROLE E LE COSE
Letteratura e realtà

Unknown.jpeg

Il corso di un particolare
10 aprile 2012 Pubblicato da Guido Mazzoni
di Guido Mazzoni
The Course of a Particular appartiene all’ultima stagione della poesia di Wallace Stevens, la più importante. Pubblicato sulla «Hudson Review» nel 1951 ed escluso per distrazione dai Collected Poems del 1954, il testo comparve in volume nell’Opus Posthumous (1957), due anni dopo la morte dell’autore. Al verso 14 Stevens esitò fra air (nel dattiloscritto) e ear (nella «Hudson Review»), che sembra essere la versione definitiva:
The Course of a Particular
Today the leaves cry, hanging on branches swept by wind,
Yet the nothingness of winter becomes a little less.
It is still full of icy shades and shapen snow.
The leaves cry . . . One holds off and merely hears the cry.
It is a busy cry, concerning someone else.
And though one says that one is part of everything,
There is a conflict, there is a resistance involved;
And being part is an exertion that declines:
One feels the life of that which gives life as it is.
The leaves cry. It is not a cry of divine attention,
Nor the smoke-drift of puffed-out heroes, nor human cry.
It is the cry of leaves that do not transcend themselves,
In the absence of fantasia, without meaning more
Than they are in the final finding of the ear, in the thing
Itself, until, at last, the cry concerns no one at all.
 
Il corso di un particolare
Oggi le foglie gridano. Pendono dai rami che il vento agita.
Eppure il nulla dell’inverno si annulla leggermente.
È ancora pieno di ombre gelide e neve modellata.
Le foglie gridano. Si rimane a distanza, ci si limita a ascoltare.
È un grido assorto e riguarda qualcun altro.
Ma per quanto si dica che uno è parte di tutto
c’è un conflitto implicito, c’è una resistenza;
essere parte è uno sforzo che declina:
si sente la vita di ciò che dà la vita così com’è.
Le foglie gridano. Non è un grido
di attenzione divina, il fumo di eroi tronfi o un grido umano.
E’ il grido di foglie che non trascendono se stesse
in assenza di immaginazione, senza significare più di ciò che sono
nell’ultima percezione dell’udito, nella cosa stessa,
finché il grido, alla fine, non riguarda più nessuno.
Il ciclo delle stagioni condanna al dolore e alla morte alcune foglie appese ai rami scossi dal vento. Benché il nulla dell’inverno stia diminuendo, alle foglie interessa solo la propria sofferenza. Il passante si limita ad ascoltare il grido busy («impegnato», «assorto» direi) di entità diverse da lui che provano dolore o che perdono la vita. Ripete uno dei topoi cui le culture umane ricorrono quando vogliono arginare l’angoscia per il destino degli esseri particolari; dice a se stesso che l’uno è parte del tutto. I vv. 6-10 contengono forse un riferimento a Spinoza, exertion essendo una delle possibili traduzioni inglesi del conatus, lo sforzo con cui, nel sistema dell’Etica, ogni cosa tenta di perseverare nel suo essere fino a quando non viene distrutta da una causa esterna. Ma colui che prende la parola in questa poesia non può condividere la serenità di chi, come Spinoza, prende le parti dell’intero: fra l’uno e il tutto si percepisce un attrito, una resistenza. Il grido delle foglie sofferenti non è divino o eroico, e neppure umano. Le persone possono trascendere se stesse attraverso la fantasia, l’immaginazione simbolica; possono costruire quelle che Stevens chiamava le «finzioni supreme» e attribuire significati a se stessi e al mondo. Le foglie, invece, rimangono esposte al proprio nulla: non potendo contare su una rete di convenzioni, progetti, illusioni, desideri, sogni condivisi che inscriva la loro esistenza singolare in un ordine superiore, significano solo se stesse. Mentre il grido degli esseri umani, in teoria, può essere tramandato e raccolto, il grido delle foglie, alla fine, non riguarda più nessuno. La prospettiva di Stevens è naturalistica e astorica: la fantasia lavora allo stesso modo in ogni forma di vita umana e produce quei sovrasensi di cui le piante o gli animali sono ontologiamente sprovvisti. Per Stevens essere uomini vuol dire trascendere la propria naturalità e significare più di quello che si è. Qui finisce The Course of a Particular.
Uscendo dall’opera e dal pensiero di Stevens, e riflettendo sul problema filosofico che il suo testo pone, si può chiedere se e quanto siano cambiate, nel corso del tempo, i sovrasensi che circondano gli esseri umani e permettono loro di significare più di ciò che oggettivamente sono. Oggi, per esempio, è molto difficile pensare che la vita delle persone possa essere raccolta, tramandata e affidata a una qualsiasi forma di trascendenza. Lo era già nel 1951, quando Stevens scrive questa poesia, o nel 1871, cioè negli anni in cui Nietzsche comincia a tradurre in discorso filosofico la crisi della cultura platonico-cristiana. La differenza è che oggi l’idea che la vita umana sia pura immanenza è una componente normalizzata della vita psichica collettiva. Entrata in modo stabile nei sistemi disciplinari e negli apparati di dominio, si mostra sotto forma di edonismo, di cinismo, di inappartenenza, di coazione a consumare cose, persone, esperienze finché si è in vita, nella convinzione inconscia o dichiarata che, prima, dopo e intorno a questa vita, non ci sia alcuna finzione suprema. D’altra parte nessuna cultura ha mai attribuito alla nuda particolarità un peso paragonabile a quello che le ha attribuito la cultura occidentale moderna, dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino al narcisismo di massa contemporaneo: il processo di cui stiamo parlando è stato anche – è bene ricordarlo – una straordinaria conquista storica. E’ questo doppio movimento a generare la contraddizione in cui si trova presa la nostra forma di vita, perché rende incomponibile la frattura fra gli universali di qualsiasi tipo (Dio, il Dovere, la Politica, la Rivoluzione) e gli esseri particolari che si credono portatori di un diritto infinito. Lo stato di cose che garantisce piccole sfere di libertà privata agli individui è lo stesso che rafforza l’inappartenenza soggettiva degli individui e, insieme, la loro oggettiva dipendenza dai meccanismi alienati e incontrollabili dell’economia, della tecnica, della politica, depotenziando ogni finzione suprema, rendendo improbabile ogni solidarietà fra le persone o fra gruppi di persone che, oggettivamente, avrebbero gli stessi interessi, e consegnando ognuno di noi alla pura immanenza della propria vita. «Due cose sono sicure: uno, ormai alla gente non importa più niente di quello che succede all’altra gente; due, nulla ha più davvero importanza ormai» (Carver, So Much Water So Close to Home); «Bruno si accorse anche che non gliene fregava più un cazzo: i colleghi, i seminari di riflessione, la formazione umana degli adolescenti, le altre culture» (Houellebecq, Les Particules élémentaires).
[Una prima versione di questo articolo è uscita sul numero 9 di «Alfalibri», supplemento al numero 17 di «Alfabeta2»]

Guido Mazzoni,Il corso di un particolareultima modifica: 2012-04-10T18:39:28+02:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo