Gloria Gaetano,Un po’ di poesia del 900

Un po’ di poesia del 900 pubblicata da Gloria Gaetano il giorno Lunedì 20 agosto 2012

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· L’ aveva intuito Ezra Pound: in letteratura c’è un’infinita distanza tra le cose che ci piacciono e ciò che prendiamo per modello. Ciò che ci piace tocca troppo spesso soltanto la superficie, ciò che prendiamo per modello invece opera nel profondo, inizialmente a nostra insaputa. Può piacermi un libro di poesie di Alda Merini, ma non prendo (o meglio il mio es non sceglie) Alda Merini come modello per la mia scrittura, essendo lei troppo radicata nella propria avventura umana per servirmi cinicamente da specchio o da alimento. Può piacermi la poesia di Mario Luzi ma ugualmente la signorilità dei suoi versi mi pare antiquata e inutilizzabile, troppo bon ton non mi è congeniale. Posso amare Leopardi ma il nitore nichilista della sua poesia, l’analisi lucida e straziante sono per nature angeliche diverse dalla mia. La sua lingua viene dal passato per offrirci la consolazione della bellezza, e la consapevolezza della vanità e del lutto – e là rimane, inattingibile. Mi piace Marina Cvetaeva ma la sua assenza di metafore è un crinale difficile, e la sua lingua pressoché un gioco di prestigio inimitabile, come la sua sofferenza senza rimedio, il suo grido di dolore assolutamente straordinario. Amo Emily Dickinson, ma non può essere un modello perché sarebbe troppo evidente la falsificazione dell’originale, c’è troppa vita privata, cioè interiore sua personale, nei suoi versi, la cui intensità è pareggiata nel Novecento da Sylvia Plath, che nella mia percezione rimane però un gradino sotto. Mi piace Pessoa ma io non posso essere quel tipo di moltitudine, troppe maschere, troppe contraffazioni di un se stesso impossibile. Posso aver apprezzato la poesia scabra di Ungaretti- anche se non sempre in verità- ma come per Petrarca trovo pernicioso l’eccesso d’imitazioni che ne sono scaturite. Apprezzo la poesia di Bukowski ma l’autenticità del suo percorso lo rende inimitabile, seguire le sue orme di anti maestro sarebbe un po’ patetico. Tutta quella affascinante letteratura beat, così legata alla strada, la sento vicina e i versi di Ginsberg sono architravi della mia visione apocalittica della città industriale contemporanea. Tutto filtrato attraverso una lettura di Rimbaud, che quella visione l’ha universalmente creata-, insieme naturalmente al Baudelaire de Lo spleen di Parigi. E non dimentico le folle anonime sciamanti nelle strade nel capolavoro di Eliot La terra desolata, libro da meditare ancora oggi, da leggere e rileggere, libro del secolo ventesimo. C’è la poesia folle e aggressiva di Artaud, inimitabile fascio linguistico di nervi tesissimi. Esplosione scatologica della civiltà occidentale, delirio chirurgico. La modernità per me ha oggi il nome di Mark Strand, di Charles Simic, di Carol Ann Duffy, di Derek Walcott, per citare solo i poeti viventi di lingua inglese. Può chiamarsi Iosif Brodskij, Nicanor Parra, Ernesto Cardenal, Tomas Tranströmer, Wislawa Szymborska, se guardiamo oltre l’orizzonte. Se allarghiamo ulteriormente il ventaglio tutto ciò che è fondamentalmente uscito dal cilindro di Baudelaire, Eliot, Auden, Pound, Laforgue, da una parte e poeti come Rimbaud, Majakovskij, Whitman, Saint John Perse, dall’altra. Considero Gottfried Benn una delle figure centrali della poesia del Novecento ma non posso prenderlo come modello, lo stesso vale per Rilke e, soprattutto, Georg Trakl, uno dei massimi lirici del secolo, troppo legati alla loro epoca, o meglio ancora inventori della propria epoca irripetibile. Mi piacerebbe avere il ghigno di Corbiére, la lucidità trasognata di Lautremont, la serenità solare e apollinea di Odisseo Elitis, vorrei fondermi con i paesaggi di Machado, ma la mia sarebbe solo imitazione e posa. Poi ci sono i maestri che vengono col tempo un po’ dimenticati, Garcia Lorca, William Blake, nel mio caso. L’uno troppo legato alla passione per la sua terra, a certi sognanti panorami che pure m’incantarono, l’altro creatore di mitologie oniriche sue proprie. Ci sono poi i maestri della lingua italiana: Gozzano, Campana, Quasimodo, Montale, Pasolini, e più recentemente Elsa Morante, con il suo straordinario Il mondo salvato dai ragazzini, Bigongiari, soprattutto quello di Moses, Testori, Gualtieri, sentinelle sull’abisso del dire. Ci sono poi i maestri del futuro, quei poeti che abbiamo solo sfiorato e mai realmente incontrato ma verso cui ci guida l’istinto. Uno di questi maestri del futuro sento essere sempre di più Paul Celan. E’ una sorta di premonizione. Oppure ci sono le operazioni monstre di Carmelo Bene sulla lingua ne “‘l mal de’ fiori”, a indicarmi la via dell’impossibile, bagliori da un mondo lontano e irraggiungibile. Ho inoltre una predilezione per il creazionismo di Vicente Huidobro, credo che la poesia sia l’invenzione di altri mondi, mondi- ombra. In adolescenza ebbi una passione per Edgar Allan Poe, che ruppe per primo certe mie concezioni desuete sulla poesia, attività di contemplazione di un pericolo imminente. Non posso dimenticare, in questo florilegio di nomi, Edgar Lee Masters, che realizza un’idea straordinaria di poema del Novecento, realizzando con L’antologia di Spoon River una delle critiche più esatte della civiltà contemporanea, e insieme una delle sue esaltazioni più accorate. Non posso dimenticare l’impatto che ebbero su me le poesie di Bertolt Brecht, per la loro intelligenza, per la loro potenza. Infine c’è il più importante di tutti, Baudelaire, che mi ha cambiato il cervello ed è tanto consustanziale all’atto della scrittura per me da diventare una citazione obbligata, penso per chiunque. Baudelaire, come Nietzsche, cambia la storia del pensiero occidentale e più in piccolo la mia esistenza. Insieme con Arthur Rimbaud è anche il poeta che mi ispira maggiore simpatia umana. Se dovessi scegliere un poeta del Novecento, che possa prenderne lo scettro, forse attualmente sceglierei Borges, che inventa o trae dall’ombra il linguaggio segreto del labirinto. Per il suo ruolo di outsider sceglierei il cinico Gottfried Benn, che attraverso versi chirurgici ha saputo fare della macelleria sublime, ci ha mostrato la carnalità come forse nel secolo ha fatto solo in pittura Francis Bacon. Per aver ricreato, e persino affinato, le atmosfere di Rimbaud, potrei eleggere Saint John Perse e, per la visione dell’esistenza come un viaggio misterioso, Blaise Cendrars. Come potenza critica, come visione, la più forte e persuasiva rimane però quella di Eliot. Colpisce oltretutto di queste figure- soprattutto Borges, Eliot e Saint John Perse, maggiormente pacificati dalla consacrazione universale rispetto a Benn, per esempio- quell’umiltà che io attribuisco sempre all’autorevolezza e al genio. Con questa silloge, District e Circle, edita nel 2006, cui per ora ha fatto seguito solo Human Chain nel 2010, Seamus Heaney conferma la vena della sua ispirazione, registrando i dati del suo passato in versi che hanno la freschezza della rievocazione, e che vincono la loro sfida con il tempo che sembra tutto cancellare. Il passato del poeta, la sua infanzia, sono raccontati, infatti, con eleganza formale e diventano i luoghi di una ricerca di senso e di purezza, più forti del divenire e dell’oblio. E’ una poesia realista questa, fatta di cose, di utensili, di lavoro umano, celebrato come un’attività colma di energie e di bellezza, in un panorama che è quello irlandese, che diventa mitico non in virtù di qualche elegiaca rielaborazione ma nella sua oggettività anche scabra, nella sua essenza selvaggia sì ma umanamente domata. Prendiamo la poesia Anahorish 1944: qui l’evento storico, lo sbarco in Normandia, cui il poeta assiste da bambino, è riportato alla sfera di evento imponderabile, così Heaney fa cozzare prepotentemente la Storia con la S maiuscola con quella individuale, raggiungendo effetti di straniamento. Gli oggetti del lavoro umano diventano emblematici: “la pompa di ghisa immobile come una pietra sacra”,dove con una felice intuizione il traduttore Luca Guerneri traduce con “pietra sacra” l’inglese “herm”. E’ significativo come per Heaney gli strumenti privilegiati per indagare la realtà siano proprio i lavori più umili: quello di fabbro nella poesia Poeta a fabbro, quello di muratore nell’epitaffio dedicato al suo amico Mick Joyce, quello del pompiere della poesiaCasco. Nostalgia del poeta borghese per la realtà dura del lavoro manuale? Mitica innocenza riconosciuta a queste figure? Pare piuttosto la fascinazione per ciò che è solido, duraturo, tradizionale. Gli oggetti, dicevamo. Il coltello affilato dal fabbro, per esempio, o il dente d’erpice appeso nella stalla, diventano forse simboli di quella forza popolare, che sta alla base delle investigazioni nel reale del poeta irlandese. Heaney in questa raccolta dà quindi voce alla realtà oggettiva, mescolando lirismo e vita quotidiana in un affresco intenso e al tempo stesso minimale, scevro da retorica e molto moderno. La modernità qui è data soprattutto dall’assenza di toni enfatici, tutto è misurato, la poesia è sintesi di un percorso nella memoria, e fra epitaffi e commemorazioni di zie morte, Heaney costruisce quest’autobiografia sui generis, non dimenticando le catastrofi della modernità. Nella poesia Tutto può accadere, infatti, c’è un riferimento alla caduta delle Torri Gemelle, occasione per meditare in chiave oraziana sulla volubilità della Fortuna. “Tutto può accadere, le torri più alte/essere abbattute, chi sta in alto intimorito/ chi in basso riconsiderato. La Fortuna becco affilato/ s’avventa aria senza fiato strappando a uno la cresta/ posandola, sanguinante, su quello accanto. “ La Storia qui pare un mezzo per comprendere la dimensione umana, per capirne le dinamiche e per denunciarne la fallibilità e le fragilità. L’esperienza personale è rielaborata fino a farne questione universale, nella poesia eponima, per esempio, la metropolitana diventa il luogo principe della modernità, con le sue alienazioni e paure, luogo dove si fa ritorno però alla “sicurezza del branco”. Nell’ultimo verso viene adombrato un possibile attentato terroristico, in maniera, in verità, ambigua. Ci sono riscritture di Orazio, Rilke, Kavafis, una poesia è dedicata a Seferis, un’altra a Neruda, un’altra ancora a Milosz; il respiro di Heaney è internazionale, sebbene ben radicato nella nativa Irlanda. Heaney sembra considerare con venerazione la forza della tradizione, che innerva i suoi versi, tradizione che è la sorgente e la linfa vitale cui il poeta irlandese attinge costantemente. Heaney mostra un’umanità forse schiacciata dalla Storia, dedita comunque al lavoro inteso come redenzione e ordinatore del caos naturale, simboleggiato dalla torbiera che fa capolino in una delle poesie della raccolta. La sensazione finale, che la silloge ispira, è una sensazione di pace, fatti i conti con il proprio passato, Heaney tira un colpo di spugna su tutta la tematica dell’assurdità dell’esistenza, e sembra trovare senso e bellezza nella quotidianità, anche quando essa è squarciata dalle mattanze e dalle atrocità della Storia. Questa raccolta, figlia della maturità, mostra una voce pacificata, misurata, che sussurra il suo amore per l’esistenza, con versi intrisi di realismo, dove il poeta si traveste da cantastorie per narrare la sua adesione ai principi di una tradizione perenne. C’è come una superiore accettazione del destino, che anche se non è sempre benigno, è comunque umanamente comprensibile. Mi sembra così che, con gesto fondamentalmente affabile, Heaney liquidi l’Assurdo, tema che così tanto ha impegnato il Novecento. “ E benedii me stesso in nome di quell’unica occasione e di ciò che capita per caso, i chi lo sa e i che succederà e i così sia. “ ETICHETTE: LIBRI DI POESIA, SEAMUS HEANEY Il numero più bello MERCOLEDÌ 20 GIUGNO 2012 I Nera la notte in cui fu calata l’ombra umana negli abissi siderali del male infinito! Sotto la luce- oh totem scolorito- annunciami la felicità del bosco quando viene la sera. E tu vecchia carcassa, muovi le labbra dì il tuo motto: (parole a mucchi di silenzi inespressivi sotto una pergola) “Non c’è interiorità. L’ha rubata il dio delle masse. Gli ultimi barbagli dipinti di un sé magico e infinito annichiliti da un paese sotterrato, il cui nome è l’ovunque. “ (parole uccise a scotimento di polveri stellari laddove tutto è segno di moneta il vivere e il morire) II Imbattersi nella propria ombra quando si guarda lo specchio è tormentare il niente col sopruso di una faccia: “ Tutte le cose pagano il fio d’essersi sottratte al nulla (per offendere Schopenhauer per intristire Leopardi) pagano il fio con la morte d’essersi al nulla sottratte”. Ed è giusto che io sia solo un’ombra che un volteggio d’aquila svanisce che un battito dell’ala del corvo restituisce alla polvere d’essere stato – mettiamo, ed è cosa molto moderna- me stesso o una sua caricatura all’ultima moda. In questo mondo che è tutt’uno con la tenebra in questo bel mondo di non nati in questa vertigine di non sapere, e lottare per infischiarsene. III Covo di funebri passioni sotto la frusta e il canto del gallo sotto il torpore e dentro la melma io ricordo i fiori della sua bocca strappavo lo stelo con la lingua e questo è quanto. Dicevo: “ La carcassa dei miei giorni di felicità giace accanto al totem del dolore. Il mio canto ha tre lingue di fuoco e una d’acqua. La mia lingua è in fuga de me stesso. Vedo una tigre nell’atto di fissare una bambola. Mettiamo sia questo che volevo dire. Oppure… Il cespuglio poi ferirsi con i rovi attraversare la chioma di un albero per sentire vibrare i coltelli della luce e accanto a quel corpo poi dentro di esso stuprare l’universo “. Vedo un pozzo dentro cui cade un infante gettato- non ho voglia di dir da sua madre, sarebbe troppo infame- e precipita, precipita. Non ho voglia di udire il tonfo. Non riesco a trovarci un nesso. La mia lingua è in fuga da me stesso. La vecchia musica dell’adolescenza è finita, non siamo fratelli che dell’ombra, circuiamo l’inesprimibile per cavare un suono che dica la felicità che si prova allo sbocciare di un ranuncolo che mostri ciò che è durevole oltre l’attimo dell’oblio. IV Ah, voglio una parola frantumata! Intesso voragini, placo marosi, sono il piccolo dio dei versi, tendo tranelli, mostro l’azzurro simmetrico dentro il palpito del cielo configuro stormi dal moto acquatico. Amo dire la mia sulle questioni filosofiche. Attacco bottone con l’infinito, poi smetto e gioco a dadi con me stesso. Peccato che sul dado manchi la faccia dello zero. E’ il numero più bello. Aprile 2009 Ettore Fobo ***

Gloria Gaetano,Un po’ di poesia del 900ultima modifica: 2012-11-13T19:50:19+01:00da mangano1
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